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Omelia del Card. Tarcisio Bertone


 
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Venerdì 1 febbraio
Liturgia Eucaristica
San Giovanni in Laterano

Omelia del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato

Signori Cardinali,
venerati Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

“Dio è morto, Marx è morto… e anch’io non mi sento molto bene!”. Questa nota battuta ironica e pessimista di Woody Allen potrebbe fotografare lo stato d’animo di una larga parte dell’umanità di questa nostra epoca, apparentemente sempre più insoddisfatta e sempre meno fiduciosa nel futuro. Nell'età della globalizzazione le comunicazioni sono rapide, immediate; ogni notizia, ancor più quando si tratta di episodi drammatici, di fatti scandalistici, di informazioni trasgressive, entra in casa all’improvviso, naviga liberamente in internet, ci raggiunge dovunque sul telefono cellulare. E questo succedersi costante di comunicazioni produce un senso di smarrimento, ingenera stati d’animo di paura e di scoraggiamento, suscita voglia di violenza e talora persino di morte. Il rischio è allora di diventare pessimisti, di rinchiudersi nel proprio interesse, non nutrendo più una speranza “affidabile” per il mondo, una speranza che, come scrive Benedetto XVI nell’Enciclica Spe salvi , sia in grado di sostenerci nel cammino “faticoso” della vita. In un contesto mondiale così compromesso, almeno apparentemente, il cristiano che cosa deve fare, come può e deve vivere e testimoniare la sua fede in Cristo, che è Vita immortale e Speranza certa?

La Parola di Dio che abbiamo ascoltato viene questa sera a rispondere a questo nostro interrogativo, illuminandoci e indicandoci il cammino che dobbiamo percorrere. Il brano dell’evangelista san Marco, che la liturgia odierna offre alla nostra meditazione, ci presenta infatti il racconto di due brevi parabole: la parabola del seme che cresce da solo e quella del granello di senapa (cfr Mc 4,26–34). Sono le ultime due che troviamo nel discorso “parabolico” in cui, attraverso immagini agricole, Gesù presenta il mistero della Parola e del Regno, e indica le ragioni della nostra speranza e del nostro impegno. Inoltre, quasi facendo eco alla pagina evangelica, anche la Lettera agli Ebrei ci raccomanda: “Non abbandonate la vostra fiducia, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di costanza, perchè dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa” (Eb 10,35).

Analizziamo dunque brevemente le due parabole evangeliche. Nella prima l’attenzione si concentra sul dinamismo della semina: il seme che viene gettato nella terra, sia che il contadino dorma o vegli, germoglia e cresce da solo (autonomaté automaticamente, dice il testo greco). L’uomo non fa che seminare, vedere e osservare. Siamo dinanzi al mistero della creazione, all’azione di Dio nella storia. E’ Lui il Signore del Regno, l’uomo non è che un collaboratore umile, che contempla e gioisce dell’azione creatrice divina e attende la raccolta desideroso di parteciparvi. Il raccolto finale ci fa pensare al giudizio, all’intervento conclusivo di Dio alla fine dei tempi, quando Egli realizzerà appieno il suo Regno. Il tempo presente è tempo di semina e la crescita del seme è assicurata dal Signore. Ogni cristiano, allora, sa bene di dover fare tutto quello che può, ma che il risultato finale dipende da Dio: questa consapevolezza lo sostiene nella fatica di ogni giorno e specialmente nelle situazioni difficili, perché noi viviamo – così prega il sacerdote nella Celebrazione eucaristica - “nell’attesa che sia compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo”.

Per capire tutto ciò possiamo anche riprendere una bella pagina dell’Enciclica Spe salvi: «Certo – scrive Benedetto XVI - non possiamo “costruire” il regno di Dio con le nostre forze – ciò che costruiamo rimane sempre regno dell'uomo con tutti i limiti che sono propri della natura umana. Il regno di Dio è un dono, e proprio per questo è grande e bello e costituisce la risposta alla speranza. E non possiamo – per usare la terminologia classica – “meritare” il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello che meritiamo, così come l'essere amati non è mai una cosa “meritata”, ma sempre un dono. Tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del “plusvalore” del cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo all'ingresso di Dio: della verità, dell'amore, del bene. È quanto hanno fatto i santi che, come “collaboratori di Dio”, hanno contribuito alla salvezza del mondo» (n. 35).

Anche la seconda parabola, che chiude il discorso parabolico dell’evangelista san Marco, utilizza l’immagine della semina. Qui, però, si tratta di un seme specifico, il grano di senapa, considerato il più piccolo dei semi secondo l’opinione popolare rabbinica (1,6 millimetri secondo gli esperti). Anche se così minuto, esso possiede una potenza di vita e un dinamismo impensabile. Così è il Regno di Dio, una realtà veramente piccola umanamente, nascosta, composta da persone in genere semplici, da poveri, da malati e da gente non importante agli occhi dei potenti del mondo; eppure attraverso di loro irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è di poco conto e apparentemente insignificante. Il granellino di senapa diviene alto e solido arbusto, capace di accogliere nei suoi rami gli uccelli. Il Regno di Dio, da un punto di vista umano, è come un piccolissimo seme o un ramoscello staccato da un cedro, o come una ridottissima porzione di lievito, disprezzabile dunque nella sua apparenza, ma contenente in sé il mistero di una forza divina prodigiosa, che per noi è inimmaginabile.

Entrambe le parabole sono accomunate dalla rappresentazione - notano i commentatori - di un “contrasto” e di una “crescita”. Il contrasto che esiste tra la piccolezza del seme e la grandezza di ciò che produce, e la crescita che avviene grazie a un dinamismo insito nel seme stesso. Chiaro è il messaggio: il Regno di Dio, anche se esige la nostra collaborazione, è innanzitutto dono, grazia che precede l’uomo e le sue opere: noi cioè non “ci salviamo”, ma “siamo salvati”. La nostra piccola forza, apparentemente impotente dinanzi ai problemi del mondo, se immessa in quella del Regno di Dio, non teme ostacoli perché sappiamo che certa è la vittoria del Signore. E’ il miracolo dell'amore di Dio, che fa germogliare e fa crescere ogni seme di bene sparso sulla terra. L'esperienza di tale miracolo d'amore ci porta ben lontano dal pessimismo, nonostante le difficoltà, le sofferenze e il male che incontriamo. Il seme germoglia e cresce, come l’uomo stesso non lo sa... lo fa crescere l'amore di Dio.

Questa è l’esperienza anche della Comunità di Sant'Egidio, nata, come piccolo seme, a Roma 40 anni fa, proprio nel febbraio del 1968. Un piccolo seme che poi è andato crescendo sino a diventare un albero rigoglioso che oggi estende i suoi rami in altre città e Paesi, in Europa e in varie parti del mondo. Conosco personalmente il bene che voi compite, cari amici della Comunità di Sant'Egidio, perchè ho avuto modo di incontrarvi in varie circostanze, qui a Roma e altrove, come ad esempio durante il mio viaggio a Cuba nel 2005. Ho avuto modo particolarmente di conoscere da vicino il vostro amore per i poveri e la vostra fedeltà alla preghiera, durante gli anni del mio episcopato a Genova. E’ pertanto con affetto che saluto tutta la Comunità qui riunita insieme con gli amici e sostenitori, grato per avermi invitato a presiedere questa solenne concelebrazione eucaristica. Saluto in particolare il fondatore, Prof. Andrea Riccardi, il presidente, Prof. Marco Impagliazzo, l'Assistente Ecclesiastico, Mons. Matteo Zuppi. Ricordo e saluto anche i numerosi Vescovi, amici della Comunità, riuniti a Roma in questi giorni, tra i quali in particolare Mons. Vincenzo Paglia, che con voi ha vissuto sin dagli inizi. A tutti sono lieto di trasmettere il saluto, l’apprezzamento e la benedizione del Santo Padre in una circostanza tanto significativa ed importante.

La vostra benemerita Comunità, come piccolo seme gettato nella terra, ha avuto inizio 40 anni fa, in un periodo storico turbinoso e complesso, segnato dall'ideologia e dal senso prometeico di un’umanità che voleva costruire se stessa e il mondo senza Dio o peggio contro di Lui. La parola “comunità”, nel suo significato più profondo, manifesta questa coscienza che la nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri (cf Spe salvi n. 48). In questo modo la speranza per gli altri si è fatta, nella vostra Comunità, passione per la comunicazione del Vangelo, perché altri vengano salvati; si è fatta amore per tutti, specie per i più poveri, perché sorga finalmente la stella della speranza anche per loro.

Per realizzare questo progetto di fede e d’amore avete posto al centro di tutto Cristo, invocandolo ogni giorno nella preghiera personale e liturgica, e forti del suo Spirito avete cercato e continuate a farvi “prossimo” e “buon samaritano” di coloro che sperimentano situazioni di disagio e di emarginazione sociale, sapendo che nessun uomo e nessun popolo può essere estraneo allo sguardo della carità. Restate fedeli, cari amici, a questa fondamentale caratteristica della vostra Comunità, a questa sua prima opera, che è la preghiera. E la preghiera e la Parola di Dio vi custodiranno sempre! Quando rimane unito a Cristo e si lascia infiammare dal suo amore, il cuore dell’uomo si dilata ed abbraccia il mondo intero, specialmente i poveri. Ecco allora che i poveri sono divenuti vostri amici e familiari, qui a Roma e nel mondo; essi fanno parte della grande famiglia di Sant'Egidio, perché non sono solo assistiti, ma vengono accolti in un circuito di amicizia e familiarità. Penso in modo speciale alle vostre Comunità presenti in ogni Continente e particolarmente in Africa, dove con la collaborazione di tanti africani appartenenti a Sant'Egidio, avete sviluppato un significativo impegno per i poveri, i carcerati, i bisognosi di ogni tipo, specialmente con il programma Dream, per la cura ai malati di AIDS, lottando con tanti mezzi contro questa grave e diffusa pandemia.

Questa sera, ci accoglie questa Basilica Cattedrale di Roma in maniera alquanto significativa. Roma parla di amore, come la Chiesa che presiede nella carità; parla di unità attorno al ministero e alla persona del Successore di Pietro, unità di fede e di amore in un mondo oggi troppo lacerato, nonostante questo tempo di globalizzazione. La Comunità di Sant’Egidio ha ascoltato e fatto suo il dramma delle tante lacerazioni, e si è imegnata per favorire l’unità e la pace, in un cammino di dialogo tra religioni e culture nello spirito di Assisi. Tutte le vostre comunità e i vostri volontari sono qui raccolti idealmente per fare memoria di questi quarant'anni di storia, e per rinnovare il comune impegno a proseguire nel cammino intrapreso. Il traguardo di 40 anni di vita vi ricorda che il carisma ricevuto vi chiama tutti a farlo fruttificare coltivando in voi la fede, crescendo nell’amore e come uomini e donne di speranza. Vi rinnovo il mio incoraggiamento, ma soprattutto quello di Sua Santità, che si unisce alla vicinanza spirituale e all’amicizia dei Cardinali e Vescovi qui presenti e di tanti Amici, raccolti questa sera con noi. Con questi sentimenti proseguiamo la nostra celebrazione eucaristica implorando su tutti voi e sulle vostre attività la protezione di Dio, che invochiamo per la materna intercessione di Maria, Stella della speranza. Amen!
 

Il 40° anniversario della Comunità di Sant'Egidio

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