Memoria di tutti i Santi, i cui nomi sono scritti nei cieli. In comunione con loro ci rivolgiamo al Signore riconoscendoci suoi figli.
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Omelia
Un anziano parroco di campagna, mio caro amico, nel giorno della festa di Tutti i Santi, per far capire alla sua gente l’importanza di quella memoria, toglieva le immagini e le statue di santi dagli altari. Diceva che in quel giorno si dovevano ricordare tutti i cristiani santi che stanno in paradiso di cui non conosciamo né i volti, né i nomi; ovviamente, li conosce bene il Signore, che li vede e li tiene accanto a sé. E aggiungeva che c’era una grande saggezza nella celebrazione di questa festa dei santi senza nome. C’è, infatti, un rischio quando mettiamo i santi sull’altare; un rischio che nasce non da loro ma dalla nostra pigrizia e da una sciocca furbizia. E - è sempre questo anziano parroco che parla - faceva ai suoi fedeli un ragionamento di questo genere: "I santi, una volta messi sull’altare, li abbiamo buggerati perché non li sentiamo più alla nostra portata; li facciamo santi per imitarli, ma una volta innalzati agli altari, immediatamente scatta nei loro confronti un senso di distanza: li ammiriamo, li veneriamo e li preghiamo (cosa giustissima!), ma sono troppo eroi per imitarli; la nostra povertà e la nostra pochezza, rivendicate peraltro solo in questi casi, non ci permettono di salire al loro livello". È un ragionamento forse semplice, ma non privo di saggezza.
La Chiesa, davvero madre e maestra, che opera in ogni modo per spingere i suoi figli alla santità, ci viene incontro presentandoci oggi la grande schiera dei santi comuni. Potremmo dire che i santi di cui si fa oggi memoria sono la moltitudine di coloro che, come il pubblicano, hanno ammesso il loro peccato, hanno rinunciato ad accampare scuse e privilegi e si sono affidati alla misericordia di Dio (cf. Lc 18,10-14). Non sono degli eroi, quasi dei superman della vita spirituale, da ammirare ma impossibili da imitare. Essi sono uomini e donne comuni, una moltitudine composta di discepoli di ogni tempo che hanno cercato di ascoltare il Vangelo e composta anche di persone non credenti ma di buona volontà che si sono impegnate a vivere non solo per se stesse.
L’Apocalisse, che ascoltiamo nella prima lettura, schiude a Giovanni un incredibile scenario: "ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani" (7,9). Nessuno, a qualunque popolo e cultura appartenga, è escluso, purché lo voglia, dal partecipare alla vita dei santi. Quella moltitudine è composta da tutti i "figli di Dio": è la famiglia dei santi. Essi non sono gli uomini "importanti" e valorosi, ma i chiamati da Dio a far parte del suo popolo: "siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio" (l Cor 6,11). Si tratta di un popolo di deboli, di malati, di bisognosi; di gente che sta davanti a Dio non in piedi ma in ginocchio; non a fronte alta ma con il capo chinato; non con atteggiamenti di rivendicazione, ma con le mani stese per mendicare aiuto.
Si è santi, pertanto, non dopo la morte, ma già da ora, da quando cioè entriamo a far parte della familia Dei, da quando siamo "separati" (questo vuol dire "santo" ) dal destino triste di questo mondo. Giovanni, nella sua prima lettera, lo dice con chiarezza: "Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato" (1 Gv 3,1-2). La santità deve essere l’impegno decisivo della vita di ogni credente; l’orizzonte nel quale iscrivere i pensieri, le azioni, le scelte, i progetti sia personali che collettivi. La santità non è un fatto intimistico avulso dalla concretezza della vicenda umana, così come non è una parentesi della propria vita, è la figliolanza di Dio e l’appartenenza alla sua famiglia.
Si tratta in verità di una dimensione che rivoluziona la vita degli uomini. In termini evangelici la santità è descritta dalle beatitudini (cf. Mt 5,1-12), da qualcuno definite acutamente "la carta costituzionale" dell’uomo del Duemila. Esse possono aiutare gli uomini a uscire dalla condizione triste in cui si trovano. La concezione della felicità evangelica, rovesciata rispetto a quella della cultura dominante, è in realtà un’indicazione preziosa. È vero che possiamo chiederci: come si può essere felici quando si è poveri, afflitti, miti, misericordiosi? Eppure, se guardiamo più attentamente le cause dell’amarezza della vita, le scorgiamo nell’insaziabilità, nell’arroganza, nella prevaricazione, nell’indifferenza degli uomini. La via della santità non è, allora, una via straordinaria: è piuttosto il cammino quotidiano di uomini e donne che cercano di vivere alla luce del Vangelo.