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Liturgia della domenica
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Omelia

Da tre domeniche le Scritture ci parlano della vigna. Quando Gesù pronunciava questi discorsi, i suoi ascoltatori sentivano riecheggiare nelle loro orecchie i numerosi testi dell’Antico Testamento relativi alla vigna del Signore. Tornava loro in mente la suggestiva preghiera: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato” (Sal 80,15-16). Sapevano bene che la vigna era il popolo del Signore, come aveva detto Isaia: “La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele”. E ogni volta i testi sottolineano la cura premurosa di Dio; una cura piena di attenzioni, di premure, di preoccupazioni, come può averle un innamorato. In verità, si tratta proprio di un amore senza limiti da parte del Signore. Talora gli autori biblici, prendendo spunto dalle serenate d’amore, applicavano la stessa scena al Signore che canta un canto d’amore per la sua vigna: “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna”, scrive Isaia. E il profeta continua: “Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino”.
Possiamo paragonare anche le nostre comunità a questa vigna di cui ci parlano le Sante Scritture. Il Signore non ha mai mancato di mandare suoi servi a curarle, ma dobbiamo riconoscere che l’uva selvatica non manca. Non manca cioè l’asprezza delle nostre azioni, l’aridità del nostro cuore, l’avarizia dei nostri sentimenti, la durezza nell’accogliere coloro che il Signore ci manda. Credo si possa applicare anche a noi il lamento del Signore sulla sua vigna che non produce frutti buoni: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?”. Il Signore s’interroga, quasi a cercare una sua ipotetica colpa per la mancanza di frutti da parte nostra. Egli, che ha lavorato certamente più di noi, continua a chiedersi se deve fare ancora di più. Perché il Signore se lo chiede, e noi no? Forse siamo a tal punto piegati a coltivare il nostro piccolo cespuglio che neppure ci salta in mente di alzare lo sguardo un poco più in alto; oppure siamo così intontiti dai nostri lamenti da non sentire altro che noi stessi; e siamo, invece, attenti ad allontanare dalle orecchie e dal cuore le parole che il Signore non manca di rivolgerci. Il cuore di questa pagina evangelica è la storia di un amore senza confini; quella di Dio per la sua terra, per la nostra vita. Un amore grande, sconfinato, che non teme neppure l’ingratitudine e la non accoglienza degli uomini, di quei vignaioli ribelli di cui parla il Vangelo, a cui egli ha affidato la terra. Nel brano evangelico c’è come l’aumentare di un singolare contrasto: tanto cresce l’amore tanto aumenta l’ostilità, o anche l’inverso, quanto più cresce la non accoglienza degli uomini, tanto più aumenta l’amore di Dio per loro.
Quando arriva il tempo della vendemmia, il padrone manda i suoi servi dai vignaioli per ritirare il raccolto. La reazione di questi ultimi è violenta: colpiscono, uccidono, lapidano quei servi. Il padrone “di nuovo” invia altri servi, in numero maggiore, ma incontrano la stessa reazione. Sembra di rileggere, in una sintesi efficace e tragica, l’antica e sempre ricorrente storia dell’opposizione violenta (anche fuori della tradizione giudaico-cristiana) ai “servi” di Dio, agli uomini della “parola” (i profeti), ai giusti e agli onesti di ogni luogo e tempo, di ogni tradizione e cultura, da parte di coloro che vogliono servire, come quei contadini “malvagi”, solo se stessi e il proprio tornaconto. Ma il Signore - ed è qui il vero filo di speranza che sottende la storia degli uomini e la salva - non diminuisce l’amore per gli uomini, anzi lo accresce. “Da ultimo” il padrone invia il suo stesso figlio, credendo che lo rispetteranno. Al contrario, la furia dei vignaioli esplode e decidono di ucciderlo per carpirne l’eredità. Lo afferrano, lo portano “fuori della vigna” e l’uccidono. Queste parole erano forse chiare solo a Gesù, quando furono pronunciate. Oggi le capiamo bene anche noi: descrivono alla lettera quello che accadde a Gesù. Era nato fuori da Betlemme; muore fuori da Gerusalemme. Gesù, molto lucidamente e coraggiosamente, denuncia l’infedeltà e l’inaccoglienza dei servi che giungono ad uccidere lo stesso figlio del padrone.
Alla fine della parabola Gesù chiede agli ascoltatori che cosa farà il padrone a quei suoi coloni. La risposta è: li punirà, toglierà loro la vigna e l’affiderà ad altri perché la facciano fruttificare. Dio attende frutti; è questo il criterio in base al quale viene fatto il trasferimento della vigna. L’ammonimento travalica gli ascoltatori di Gesù per giungere sino a noi. Il Vangelo dice di non farsi facili illusioni rivendicando un diritto di proprietà inalienabile sulla “vigna”, che è e rimane di Dio. I nuovi vignaioli sono qualificati solo dai frutti, non dalla semplice appartenenza. Sono i frutti di giustizia, di pietà, di misericordia, di amore che ci rendono partecipi del popolo di Dio. “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia”, scrive il Vangelo di Giovanni (15,2). E ancora: “Dai loro frutti li riconoscerete”.