PAROLA DI DIO OGNI GIORNO

Liturgia della domenica
Parola di Dio ogni giorno
Libretto DEL GIORNO
Liturgia della domenica
domenica 3 marzo

Omelia

Continua il nostro cammino quaresimale che ci condurrà a Gerusalemme per la Pasqua. Siamo alla terza tappa, dopo la tentazione nel deserto e la visione del Tabor. La liturgia di questa domenica si apre con la narrazione dell’esperienza religiosa di Mosè su un altro monte, l’Oreb. Mosè, narra il libro dell’Esodo, stava pascolando il gregge del suocero e si spinse sino all’Oreb. Era fuggito dall’Egitto perché la sua vita era in pericolo (aveva ucciso un egiziano) e si era sistemato con la tribù di Ietro, sacerdote di Madian. Lì conduceva una vita normale, come quella di tanti. Forse, l’unica differenza era quella di tenersi a distanza dagli egiziani.
Un giorno, arrivato alle pendici del monte Oreb, “l’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto”: un fuoco che bruciava ma non consumava. Così è della Parola di Dio: brucia la nostra vita ma non la distrugge, ci inquieta ma non ci annienta. Questo fuoco così particolare si fa parola viva, toccante: chiama Mosè per nome. In quel deserto sconfinato, mentre si trovava solo con le sue greggi, quell’ebreo egiziano non era né solo né abbandonato: “Mosè, Mosè!”, si sentì chiamare. Alla sua risposta la voce continuò: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è terra santa!”. Mosè non solo si tolse i calzari, si velò anche il viso, “perché aveva paura di guardare verso Dio”. Non si può stare impunemente alla presenza di Dio. Ancora oggi, in Oriente, quando si entra nei luoghi santi (penso alle moschee o alla zona attorno all’altare nelle chiese cristiane copte dell’Egitto), bisogna togliersi le scarpe.
È il senso della nostra pochezza e della nostra povertà. Prostriamoci davanti a chi è tanto più grande di noi, infinitamente più grande, nella forza e soprattutto nell’amore! Le parole che Dio rivolse a Mosè bruciavano di un amore sdegnato per l’oppressione di Israele: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo”. Il Dio che Mosè si trova davanti non era lontano e impassibile, ma un roveto d’amore, un fuoco che brucia per liberare il suo popolo. Davanti a questa fiamma dobbiamo davvero coprire il nostro volto, spesso freddo e distante. La vicinanza di questo fuoco ci trasforma e ci rende testimoni dell’amore. Mosè aveva paura di tornare in Egitto e soprattutto di presentarsi al suo popolo. Con quale autorità avrebbe chiesto di essere ascoltato? Per questo chiede al Signore: “Chi sono io per parlare al popolo d’Israele?”. È una domanda saggia, impregnata della consapevolezza della propria fragilità e inadeguatezza. Infatti la forza del discepolo non si fonda sulle sue capacità, ma sulla vicinanza del Signore: “lo sono (sarò) con te”. Mosè non dovrà andare a liberare i suoi fratelli con parole dettate dal suo cuore vacillante, ma con quelle di Dio: “Io-Sono mi ha mandato a voi”. La definizione che Dio dà di se stesso, “Io sono colui che sono”, non è costretta, è storica: il nome di Dio (ossia Dio stesso) accompagnerà sempre Mosè e il suo popolo.
Su quel monte, l’Oreb, si manifesta la scelta di Dio per Israele e per gli uomini: “Io sarò con te, dice il Signore a ogni uomo, a ogni donna; io sarò per te come il fuoco che riscalda e illumina, come la nube che guidava Israele nel deserto; io sarò la tua libertà e il tuo futuro, come diedi a Israele la terra promessa. Non solo; io porrò la mia tenda in mezzo a voi, mi stabilirò per sempre con voi; sarò l’Emanuele, il Dio con noi”. La definizione che Dio ha dato di se stesso sull’Oreb raggiunge il suo culmine in Gesù: Gesù è il definitivo roveto ardente (“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso”, Lc 12,49). Ed è lui che ha detto ai discepoli: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
La pericope evangelica di questa terza domenica di Quaresima ci presenta Gesù come un vignaiolo che intercede presso il padrone per salvare una pianta di fico. Per vari anni quest’albero non ha prodotto frutto e il padrone, sdegnato, vuole tagliarlo. Il vignaiolo insiste perché il padrone aspetti ancora un po’ di tempo. La supplica raggiunge il padrone e lo convince. Con questa parabola Gesù non fa che descrivere la vicenda della nostra vita, spesso senza frutto. Essa però è salvata dalla misericordia di Gesù che si è fatto compagno, amico e difensore di ognuno di noi. Ma chiede di lasciarsi toccare il cuore. La Quaresima è uno di quei tempi particolari, opportuni, che ci sono donati per la nostra conversione. Dio non è intento a mandarci disgrazie perché ci ravvediamo (è una concezione distorta di Dio, anche se purtroppo è molto diffusa). Gli esempi riportati da Gesù sono chiarissimi in questo senso. Anche i salmi lo ripetono: “Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102/103,8). Tuttavia il richiamo all’urgenza della conversione è serio; non tanto per la vendetta di Dio, quanto per evitare di fare del male: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (l Cor 10,12).