PAROLA DI DIO OGNI GIORNO

Liturgia della domenica
Parola di Dio ogni giorno

Liturgia della domenica

IV di Pasqua.
Memoria di san Nil, staretz russo, (+1508). Fu padre di monaci ai quali insegnò il grande amore del Signore per gli uomini, esortandoli a chiedere a Dio lo stesso sentimento (in greco macrotimia). Ricordo della preghiera per i nuovi martiri del Novecento presieduta da Giovanni Paolo II, durante il Grande Giubileo dell'anno 2000, al Colosseo a Roma assieme ai rappresentanti delle Chiese cristiane.
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Libretto DEL GIORNO
Liturgia della domenica
domenica 7 maggio

Omelia

L'apostolo Pietro – come abbiamo ascoltato dal libro degli Atti – alla sera di Pentecoste, pieno di Spirito Santo, disse alla folla che si era radunata davanti alla porta del cenacolo: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,36). Queste parole risuonano decise anche oggi, alle nostre orecchie, in questa santa liturgia. Pietro non scarica le accuse su qualcuno o su qualche gruppo in particolare; non accusa solo gli ebrei; l'apostolo accusa tutti, cominciando da sé, e poi gli altri, anche i Romani e coloro che erano presenti a Gerusalemme. Nessuno si è opposto all'ingiustizia che si stava perpetrando contro quel giusto. Tutti sono stati corresponsabili, chi per paura, chi per indifferenza, chi per tradimento, chi per distrazione. E, alla fine, tutti per lo stesso motivo, ossia salvare se stessi e restare nella propria tranquillità. L'unico che non ha salvato se stesso è stato Gesù, per questo il Padre che sta nei cieli è intervenuto in suo favore e lo ha strappato dalla morte. La resurrezione è perciò tutta opera di Dio. Nostra è invece la responsabilità per la morte di quel giusto; nostra è anche la responsabilità per la morte di tanti giusti ancora nei nostri giorni.
Ecco perché – notano gli Atti – gli ascoltatori di Pietro al sentire il Vangelo della morte e della risurrezione di Gesù «si sentirono trafiggere il cuore». Anche ai loro occhi apparve l'enorme distanza tra l'indifferenza del loro comportamento, che ha lasciato morire sulla croce quel giusto, e l'intervento appassionato del Padre che lo ha liberato dalla morte. Prima di quegli ascoltatori, Pietro stesso si era sentito trafiggere il cuore nel petto quando udì il canto del gallo che gli ricordò il tradimento del Maestro che pure lo aveva avvertito della sua debolezza. E finalmente ne ebbe coscienza e pianse. Ugualmente i due discepoli di Emmaus che ritornavano intristiti alla loro vita di sempre si sentirono «ardere il cuore nel petto» mentre quello straniero, aggiuntosi nel cammino, spiegava loro le Scritture. Il Vangelo tocca il cuore e lo "riscalda", ma non quando ci si sente buoni, sensibili, religiosi, bensì quando si avverte la propria distanza da Dio, l'unico buono, quando si sente il bisogno di aiuto per non soccombere nella propria debolezza.
In un mondo in cui si è fatto più raro il senso della grandezza di Dio e più frequente invece il senso della propria grandezza e della buona considerazione di sé, l'ascolto del Vangelo fa scoprire il proprio vero volto. Ed è la coscienza della propria debolezza e della propria cattiveria che spinge a porre la stessa domanda che la folla rivolse a Pietro quel giorno dopo la predicazione: «Cosa dobbiamo fare?» Non era una domanda formale; con essa quegli ascoltatori manifestavano la disponibilità a cambiare il cuore. Non dicono, infatti: "Cosa debbono fare gli altri", chiedono cosa essi stessi dovevano fare. La risposta non va cercata fuori di sé. L'apostolo Pietro, infatti, alla domanda della folla risponde: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo». È l'invito a cambiare il cuore, ad alzare lo sguardo da se stessi e fissare i propri occhi su quel Gesù che ha dato la sua stessa vita per salvarci da un mondo che non libera e che schiaccia in particolare i più deboli. Essere battezzati vuol dire immergersi nel mistero stesso di Gesù, mettersi alla sua sequela, come il Vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato ci indica. Sì, seguire Gesù, il pastore buono, è la nostra salvezza. Il Vangelo parla di un recinto per le pecore. C'è chi vi entra per vie traverse, ossia per propri interessi, per amore delle proprie cose: costui – dice Gesù – si insinua come un ladro e un brigante profittando magari della notte, della paura e della debolezza per portarsi via il cuore dei discepoli, per fiaccare la loro vita. Questo brigante può essere un discorso, una persona, un'abitudine o una qualsiasi altra cosa che però rapina il cuore perché lo allontana dal pastore, dal suo disegno di amore.
C'è invece chi entra nel recinto per la porta: è il pastore delle pecore. Dice Gesù che «il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce». Nelle prime apparizioni Gesù ha trovato le porte del cuore dei discepoli chiuse per la paura e l'incredulità. Ora la porta si apre, il pastore entra e chiama le sue pecore una per una: è la parola del Risorto che chiama per nome Maria mentre sta piangendo davanti al sepolcro; è la parola che chiama Tommaso perché non sia più incredulo ma credente; è la parola che chiede a Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?», per tre volte. È una voce diretta che chiede una risposta altrettanto diretta. Non è una voce estranea. È la voce dell'amico. Essa non conduce in un altro recinto, magari più bello e confortevole; toglie invece ogni recinzione, ogni barriera per porre davanti ai nostri occhi l'orizzonte illimitato dell'amore. Dice Paolo: voi siete liberi da tutto per essere schiavi di una cosa sola, dell'amore. Verso tale amore Gesù ci conduce. Egli cammina innanzi a noi e ci porta verso questo pascolo verde: «Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza». Chi lo segue sarà salvo, troverà pascolo e «non avrà fame... non avrà sete» (Gv 6,35).