Intervento di Andrea Riccardi alla Marcia in ricordo della deportazione degli ebrei di Roma avvenuta il 16 Ottobre 1943
17 ottobre 2009
Cari amici,
sono passati ben sessantasei anni da quel Sabato 16 ottobre 1943, quando gli ebrei romani furono rapiti dalle loro case e avviati al campo della morte; quando i fortunati dovettero mendicare un nascondiglio per lunghi mesi. Quei dolorosi momenti sono però ormai irrimediabilmente lontani. Chi era bambino, magari testimone di quell’orrore, oggi è anziano. La gran parte di chi ha sofferto allora non c’è più.
Perché allora ritrovarsi oggi anche quest’anno? Si potrebbe dire che ora i problemi sono altri. Che ci sono problemi della crisi economica, dalla convivenza difficile nelle periferie. In fondo la storia sbiadisce quel ricordo. Il 16 ottobre non diventerà una di quelle targhe nelle strade della città, che commemorano tanti eventi, alcune anche indecifrabili?
Siamo convinti che il 16 ottobre è un punto di arrivo, frutto amaro di una storia drammatica. E’ la storia di un paese che perse la libertà e che si vide imporre discriminazione e odio all’ebreo. Il provvedimento sembrò corrispondere, per alcuni, a quell’odio all’ebreo che veniva da lontano e che, da sempre, lo considerava estraneo, nemico, complottante eterno contro la nostra civiltà da cui difendersi. Molti pensavano che la situazione non era così drammatica. La discriminazione fu imposta, mentre molti la trovavano assurda, ma non potevano parlare, perché non c’era libertà. Era assurdo; sarebbe passato come tante pagliacciate. Poi il paese si vide imporre la guerra al mondo. Infine arrivarono i tedeschi, per cui uccidere un ebreo era un’opera meritoria per la salvezza della loro Europa.
Finché, in quel 1943, dopo giorni confusi tra speranze e timori, venne la buia e fredda mattina del 16 ottobre. La difesa della civiltà italiana, la pagliacciata, quello che sarebbe passato, divenne un vero dramma: la più grande tragedia della Roma del Novecento e non solo. Più di mille ebrei deportati; altri braccati come bestie per molti mesi. Accadde un dramma, perché si era persa la libertà, e a seguire il senso di giustizia, l’umanità, il senso di un destino comune.
Quel Sabato terribile ci trovò divisi tra romani: c’erano gli ariani e gli ebrei. Ma eravamo anche lontani come credenti. Una storia dolorosa separava i cristiani, i cattolici, dagli ebrei, con un muro di ignoranza che qualche volta si faceva disprezzo, fatto di poca frequentazione e amicizia. Fu la storia di quei mesi a far scoprire a molti cristiani il volto dell’ebreo. Credo che taluni ebrei scoprirono volti umani di cristiani. Nella tragedia del 1943-44 finì una storia di separazione, di distanza, tra romani, tra cristiani e ebrei. Leggiamo nel profeta Abdia parole gravi:
“A causa della violenza contro Giacobbe, tuo fratello, la vergogna ti coprirà e sarai sterminato per sempre. Anche se tu stavi in disparte, quando gli stranieri ne deportavano le ricchezze, quando i forestieri entravano nelle sue porte… ti sei comportato proprio come uno di loro. Non guardare con gioia al giorno di tuo fratello, al giorno della sua sventura.” (1,10)
Dopo quel 1943-44, Roma si è ricostruita. Così ha fatto la Comunità ebraica con coraggio, senza troppo lamento. Ma progressivamente è affiorata –ne siamo testimoni- la volontà di una nuova storia: tra romani certamente, ma anche tra ebrei e cristiani. E’ una storia che nasce da quel grande dolore. Dalla vergogna quando portavano via le ricchezze di questa Comunità, i suoi bambini; quando i forestieri entravano nelle sue porte, e molti stavano in disparte.
La memoria del 16 ottobre non passa, mentre tanto passa: è memoria di un grande dolore, ma anche è e deve diventare l’inizio di una nuova storia. Una storia in cui non si resta più soli e isolati, in cui non si lasciano crescere i muri, in cui non si tollerano l’odio e la discriminazione. Infatti, quando si lascia crescere tutto questo, potrà accadere qualcosa di tragico, imprevisto, oltre la volontà e i limiti dei singoli. L’odio travolge l’umanità. Tutto il male allora è possibile. Forse noi cristiani non abbiamo ben capito quel che dice Gesù rispetto al comandamento del “non uccidere” o lo abbiamo preso come un’esortazione alla perfezione: “chiunque si adire con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio” (Mt 5, 22). Nell’odio abita lo spirito dell’assassino.
Il 16 ottobre richiama al valore della giustizia contro ogni discriminazione. La presenza del Sindaco dà a questa memoria un valore civico. Questa memoria è nei cromosomi di Roma. La crescente partecipazione di tanti mostra come il ricordo deve coinvolgere di più i romani.
Per noi, nella condivisione del dolore, è un momento di quella grande amicizia che la Comunità di Sant’Egidio sente verso la Comunità ebraica di Roma da tanti anni. Un pegno di amicizia tra ebrei e cristiani a Roma che la visita di Benedetto XVI al Tempio approfondirà.
La campagna antisemita aveva nel 1943 attutito i sentimenti di umanità verso gli ebrei. Fausto Coen racconta che, qui, al Portico d’Ottavia, vedendo gli ebrei portati via, "una povera donna in piedi prese di tasca un rosario e incominciò a pregare e a piangere, mormorando ritmicamente con un tremito persistente delle labbra: povera carne innocente".
Quella donna aveva capito molto di più di tanti leader, diplomatici, conoscitori del mondo. Aveva capito quanto vale un uomo. Possa questa memoria dolorosa renderci sempre giusti e umani in tutte le occasioni, belle e brutte, che il domani ci riserverà. Possa la nostra fede essere sorgente e difesa di un senso di umanità. Questa è almeno la nostra volontà: restare umani e restare amici.