Intervento di Matteo Zuppi alla Marcia in ricordo della deportazione degli ebrei di Roma avvenuta il 16 Ottobre 1943
17 ottobre 2009
Cari Amici, iniziamo questa marcia, vero pellegrinaggio, che ci porterà vicino ai luoghi dove quel 16 ottobre 1943 si consumò la deportazione degli ebrei di Roma, strappati dalla loro vita ordinaria per essere gettati nell’abisso dei campi di concentramento. Il loro ricordo è legato a quell’orrore. Ma non dobbiamo mai dimenticare che il loro nome, cioè la loro vita, il nome che l’idolatria nazista voleva cancellare, era quella persona, quel figlio, quel papà, quella mamma, quel nonno, quel compagno di classe, di gioco. Stare qui è anche dire che i loro nomi non sono cancellati. Ce lo insegna Dio, benedetto e santo, che il nome dei suoi figli conserva in eterno.
Percorreremo a ritroso l’itinerario di quell’indecente rapina di vita, come per restituire quello che il male ha tolto. E’ come riaccompagnarli nelle loro case. E questo ci fa provare un’intensa commozione, intima, ripensando alle loro storie, cercando di immaginare i loro volti, di mettere i nostri occhi nei loro occhi, di stringere le loro mani. Per molti di noi questo cammino è iniziato ad Auschvitz e Birkenau, a settembre con il pellegrinaggio in occasione della Preghiera per la pace. Sono i luoghi dove erano diretti quelle persone che queste mura hanno visto passare, stipati nei camion nazisti, atterriti e pieni di inquietudine. E lì sono rimasti, passati per un camino. Quel 16 ottobre non sapevano cosa sarebbe stato della loro vita. Forse alcuni temevano la morte, anche se è sempre così difficile credere al mistero della cattiveria capace di oscurare ogni traccia di umanità. Noi, però, noi lo sappiamo dove erano diretti. Oggi non possiamo dire che non sappiamo, che non abbiamo visto, che è un’esagerazione, come insinuano la colpevole ignoranza, il calcolo, il pregiudizio. Lo abbiamo visto: quei luoghi sono esperienza sempre nuova dell’epifania del male. E il male impone una scelta: non si può essere neutrali con il male. Per questo siamo qui, per dire che non possiamo e non vogliamo restare in silenzio; per dire che vogliamo scegliere di stare dalla parte delle vittime innocenti, senza mai accettare nessun “però” o “ma”: innocenti. La decisione è stare dalla parte delle vittime. Non basta farlo una volta, ma richiede che questa determinazione cresca e si rinnovi.
A Birkenau il rabbino Lau, lui stesso sopravissuto a Mathausen, ha ricordato come non dimenticare quella fabbrica di morte significa anche guardare e fermarsi di fronte ai 18.000 bambini che ogni giorno muoiono di fame nel mondo. Ricordare delle vittime chi rende attenti e sensibili a chi oggi subisce la cattiveria degli uomini. Lau ha raccontato come aveva visto a Buchenwald incisa sul muro di una cella la parola “necumene”, in Yiddish "fai la vendetta", ultima parola di un uomo torturato in quella stanza. Vendetta. Si è guardato attorno, osservando quell’assemblea composita di uomini e donne di ogni religione e provenienza, ed ha detto: “Quale vendetta possiamo fare noi? La mia soluzione è vivi e lascia vivere. Viviamo insieme, in amicizia, in amore ed in pace”. E’ quello che scegliamo oggi. E la nostra fraternità è la vera risposta al 16 ottobre.
Per tanti motivi quest’incontro è davvero particolare. Unisce generazioni diverse, i pochi che hanno vissuto quel terribile giorno di ottobre del 1943 ed i tanti che possono solo immaginarlo. Unisce romani e stranieri, una delle poche occasioni comuni in una città dove spesso ognuno cerca di difendere solo il proprio piccolo interesse e guarda con ignoranza e paura l’altro. Unisce cristiani ed ebrei, in un’amicizia che si è intessuta proprio nel rifiuto di questa barbarie e che in questi anni è cresciuta, diventando familiare, possiamo ben dire fraterna, certamente benedetta dall’unico Dio che non smette di insegnare ad amarci tra noi. Unisce perché cammineremo insieme per strada, noi che spesso pigramente guarderemmo da lontano, imporremmo il nostro passo agli altri o per paura scapperemmo lontano dalla sofferenza. Unisce in un silenzio rispettoso, pensoso e profondo, quando assistiamo al diffuso di uno sguaiato aggredirsi, al rozzo contrapporsi, al giocare con la libertà frutto di tanta sofferenza.
Infatti siamo tutti debitori a loro per quello che abbiamo. E vogliamo riconoscerlo: la nostra libertà è dolorosamente cresciuta da tanto dolore. Scriveva Hetty Hillesum poche settimane prima di essere condotta ad Auscwitz, a 27 anni, dove sarebbe morta: “Vorrei tanto trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo per preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi. Continuo a credere nel senso profondo di questa vita. Ti sembrerà incomprensibile ma trovo sempre la vita così bella e mi sento così felice. La miseria che c’è qui è veramente terribile eppure alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato e allora dal mio cuore s’innalza sempre una voce e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande. Più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi”. E’ questo sogno che lei non ha potuto vedere realizzato, sogno che lei e tutte le vittime hanno anelato che ci viene consegnato. Rendiamolo concreto. Anche per loro.