In una Santa Maria in Trastevere piena all'inverosimile, mentre risuonano i canti della comunità etiope e di quella siriaca, una grande croce fatta con il legno delle barche naufragate al largo di Lampedusa, attraversa la navata e viene collocata sull'altare.
Inizia così la preghiera "Morire di speranza", promossa dalla Comunità di Sant'Egidio insieme al Pontificio Consiglio per i Migranti e i Rifugiati e un folto gruppo di associazioni cattoliche e di diverse denominazioni cristiane.
Quando si leggono i nomi di coloro che hanno perso la vita - e quanti sono i bambini tra di loro- in tanti si alzano silenziosamente dai banchi per andare ad accandere una candela. Tra il popolo ci sono anche i parenti di alcune delle vittime. E' un momento di intensa commozione.
La veglia di preghiera è presieduta dal card. Antonio Maria Vegliò, presidente del POntificio Consiglio per i Migranti e i Rifugiati, di cui pubblichiamo l'omelia.
Cari fratelli e sorelle,
Riuniti nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, abbiamo accolto l’invito della Comunità di Sant’Egidio assieme alle ACLI, alla Caritas Italiana, alla Migrantes, al Jesuit Refugee Service, alla Comunità Giovanni XXIII, e e alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, a ricordare con il loro nome almeno una parte di quanti hanno perso la vita durante il viaggio verso l’Europa.
Rivolgiamo, quindi, a Dio le nostre preghiere per le anime di tante persone innocenti travolte dalle onde del mare. La loro odissea si è conclusa nel Mediterraneo, per il naufragio di imbarcazioni fatiscenti e sovraffollate. Erano uomini, donne e bambini che provenivano da Paesi in guerra dai quali fuggivano per aver salva la vita. Senza potere scegliere vie alternative, con in mano solo la speranza e la forza della disperazione.
Ci sono giunte le testimonianze di superstiti e di persone che hanno perso amici, familiari o conoscenti che erano a bordo delle carrette del mare. Con questa veglia, desideriamo manifestare la nostra vicinanza e abbracciare nella preghiera ai parenti delle vittime e ai rifugiati qui presenti.
Siamo tutti chiamati ad ascoltare i drammi dei racconti di coloro che sono scampati a questi terribili viaggi e le storie che si celano dietro i loro occhi. Una giovane poetessa keniana, Warsan, nata da genitori somali in fuga dalla guerra civile, scrive:
Nessuno lascia la casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo /
Scappi al confine solo quando vedi tutti gli altri scappare / I tuoi vicini corrono più veloci di te / il fiato insanguinato in gola /
Devi capire che nessuno mette i figli su una barca / A meno che l’acqua non sia più sicura della terra /
Nessuno si brucia i palmi sotto i treni / Sotto le carrozze /
Nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion nutrendosi di carta di giornale / A meno che le miglia percorse non siano più di un semplice viaggio /
Nessuno striscia sotto i reticolati / Nessuno vuole essere picchiato / compatito / Nessuno sceglie campi di rifugiati o perquisizioni a nudo che ti lasciano il corpo dolorante / Né la prigione. […]
Nessuno ce la può fare / Nessuno può sopportarlo / Nessuna pelle può essere tanto resistente […]
Voglio tornare a casa, ma casa mia è la bocca di uno squalo /
Casa mia è la canna di un fucile / E nessuno lascerebbe la casa /
A meno che non sia la casa a spingerti verso il mare /
A meno che non sia la casa a dirti / Di affrettare il passo / Lasciarti dietro i vestiti / Strisciare nel deserto / Attraversare gli oceani.
Annega / Salvati / Fai la fame/
Chiedi l’elemosina, Dimentica l’orgoglio.
È più importante che tu sopravviva […]
Questa poesia, come tante altre testimonianze di rifugiati, ci permette di capire la loro voglia di vivere e di conoscere le innumerevoli sofferenze a cui sono costrette popolazioni; ci aiuta a comprendere i motivi per cui sono forzate a fuggire dal proprio Paese, rischiando ancora la vita in viaggi pericolosi e dolorosi che possono durare settimane, mesi e addirittura anni. La maggior parte di queste persone, una volta approdate sulle coste europee, non ha finito il suo doloroso cammino, ma si fa strada verso altri Paesi in Europa per raggiungere familiari o conoscenti.
Cari fratelli e sorelle, non possiamo permettere che si espanda un mare di indifferenza nei confronti di sopravvissuti giunti da noi via terra, o via mare, attraverso viaggi gestiti da trafficanti. Nessuno può scegliere su quali sponde del mare nascere. Ogni persona creata a immagine di Dio sta “legalmente” al mondo con il diritto di vivere una vita dignitosa.
Al momento, purtroppo, la risposta internazionale rimane inadeguata e la questione migratoria viene affrontata come un problema di sicurezza e non come una crisi umanitaria. Il destino di esseri umani non può essere conteggiato come si trattasse di numeri e sarebbe troppo comodo affrontarlo con un pilatesco “lavarsi le mani”. La condizione di lentezza che i Paesi Europei stanno adoperando nel mettere a punto un piano di responsabilità condivisa per la protezione di queste persone, divide le Nazioni sul rispetto dei diritti umani e lascia spazio ad una propaganda di paura usata da fazioni politiche nei confronti di migranti e rifugiati.
Impegniamoci a non operare la divisione tra noi e questi nostri fratelli di altro credo religioso e di lingua diversa perché, insieme, siamo figli dell’unico Dio creatore. Non lasciamo dividere la nostra umanità! La divisione è un male profondo che deforma e distrugge la bellezza dell’immagine e somiglianza di Dio che è in noi. Ricordiamo che accogliere lo straniero, il rifugiato, è un’esperienza d’amore di Dio che siamo chiamati a testimoniare con un modo d’agire corrispondente alla volontà del Signore, con un amore preferenziale a difesa della dignità di questi fratelli e sorelle.
Le parole del profeta Michea riassumono come il Signore ci chiede di agire. Egli dice: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Michea 6, 8). Questo versetto nella sua essenzialità apre un programma di vita universale che parla a tutti i popoli. Il Signore, nella mitezza, chiede di agire. Affidiamoci al Signore e camminiamo umilmente con Lui per testimoniare il nostro incontro personale e solidale con la vita e sostenendo i diritti dei fratelli e delle sorelle migranti e rifugiati. |