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September 8 2014 09:30 | Auditorium ING

Tra lo scontro e l´incontro



Jesus Delgado


General Vicar of San Salvador, El Salvador

Andrea Riccardi ci ricordava poco tempo fa, che Papa Francesco, nel settembre 2013, si è dissociato dai bombardamenti in Siria proponendo una via di uscita da una guerra barbara: «Vinci le tue ragioni di morte e apriti al dialogo... non con lo scontro, ma con l’incontro», diceva il Papa.

Il Prof. Andrea Riccardi si chiedeva allora, “ma come dialogare con chi ti uccide?” E ragionava così: “Dialogo, incontro non sono espressioni fiacche, ma stimolano a una ripresa di iniziativa in una comunità internazionale paralizzata nei rapporti con la Russia, bloccata sull'Iran, incagliata nel conflitto israelo-palestinese, incapace di decidere politicamente. Dialogo e incontro sono, per il Papa, il rifiuto di credere al muro contro muro o a guerre chirurgiche. Questo non è retorica, ma comprensione della complessità contemporanea”.  

Anche Monsignor Vincenzo Paglia, in un suo intervento sul martirio di Monsignor Oscar Arnulfo Romero, tenuto a Terni, nel 2003, diceva che “possiamo vedere in, un´intera schiera di nuovi martiri, quelli del Novecento, una folla di uomini e di donne che hanno “resistito fino al sangue”. La simbolicità della morte di Romero, ucciso sull’altare, lo rende un testimone particolarmente eloquente. La Chiesa anglicana lo ha scelto tra i dieci testimoni della fede del Novecento che campeggiano nella facciata della cattedrale di Westminster. È noto quanto San Giovanni Paolo II abbia sottolineato questa memoria, inserendo personalmente il Nome di Romero nel testo della celebrazione di Nuovi Martiri tenutasi nell’anno giubilare, e dettando la frase: “Romero, assassinato all´altare”.

Poco tempo fa, il Papa Francesco ha manifestato la sua volontà di promuovere alla gloria degli altari non solo Monsignor Romero ma anche i sacerdoti e laici catechisti che in El Salvador furono uccisi per il loro servizio alla Parola di Dio, nello spirito della carità pastorale, al servizio della promozione umana dei contadini, come nel caso di Padre Rutilio Grande.

Il 24 marzo del 1980 mons. Romero fu ucciso, con un solo colpo di fucile, mentre stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza ove era situata la sua abitazione.

Romero non sentiva di essere un eroe. Aveva paura di morire. E più volte lo aveva manifestato. Tuttavia era convinto di dovere adempiere ai suoi doveri di cristiano e di vescovo. Quando cominciarono a giungergli minacce di morte, ebbe timore e angoscia, ma scelse di rimanere per senso di responsabilità e di carità pastorale.

Romero non moriva per eroismo ma per fedeltà alla missione affidatagli. Moriva per aver tentato, sulla base della sua fede cristiana, di contrastare il male che aveva afferrato il suo paese in quella tempesta di violenza che la Commissione della Verità in El Salvador ha successivamente così descritto:

“La violenza fu una fiammata che avanzò per i campi del Salvador, invase i villaggi, interruppe ogni percorso, distrusse strade e ponti, giunse alla città, penetrò nelle famiglie, negli spazi sacri e nei centri educativi, colpì la giustizia, segnalò come nemico chiunque non apparisse nella lista degli amici. La violenza trasformò tutto in distruzione e morte. Le vittime erano salvadoregni e stranieri di tutte le provenienze… poiché la violenza rende uguali nell´abbandono cieco della sua crudeltà… La instaurazione della violenza in maniera sistematica, il terrore e la diffidenza nella popolazione sono i tratti essenziali di questo periodo” (Documento de la Comisión de la Verdad, 1983)

Voglio parlare parallelamente di questa cultura dell’incontro portata avanti da Papa Francesco e della vita del nostro amato Monsignor Romero perché sono intimamente unite.  Mentre Papa Francesco, con tenacia spirituale, persegue la dissociazione tra religioni e violenza, Monsignor Romero ha vissuto questo stesso pensiero nella tormentata realtà salvadoregna. “È frequente vedere mons. Romero presentato come un rivoluzionario”, diceva Monsignor Paglia “se si scorre Internet, si notano persino gruppi rivoluzionari che portano il suo Nome. Ma Romero è tutt`altro che l´espressione di una Chiesa rivoluzionaria. Egli resta un vescovo che ha vissuto in un difficilissimo momento di transizione del suo paese, un momento di grande polarizzazione politica, di radicalizzazione della violenza, di profondi contrasti. Monsignor Romero è un vescovo al servizio del Vangelo e della Chiesa, come emerge già dal suo motto episcopale SENTIRE CUM ECCLESIA. E della preoccupazione fondamentale della Chiesa, la Salus animarum, Romero aveva fatto la sua priorità.”

Papa Francesco ha ammonito che «fermare l`aggressione» non diventi conquista. Ha aggiunto che c'è un diritto dell`aggressore a essere fermato, «perché non faccia del male». Fermato, si!, ma non ucciso. 

Anche Monsignor Romero, spinto dalla forza dell’amore del Vangelo, si è opposto ferocemente alla guerra rivoluzionaria che un settore della popolazione salvadoregna voleva scatenare contro i ricchi. Questi rivoluzionari sostenevano che la loro guerra era giusta perché i ricchi avevano sottomesso la popolazione salvadoregna ad una ingiustizia sociale scandalosa e inumana. Monsignor Romero era d´accordo sulla scandalosa realtà dell´ingiustizia sociale, ma chiedeva ai rivoluzionari di non trattare i ricchi come nemici che dovevano essere fermati con la forza delle armi, perché allora la loro azione diventava conquista di potere e non instaurazione della giustizia sociale; chiedeva in nome del Vangelo, di dialogare tra di loro per la riconciliazione e l´impianto della giustizia sociale.

Il Cardinal Roger Etchegaray ha testimoniato con forza l’atteggiamento profondamente cristiano di Romero: “Ha suscitato qualche fastidio che si parli della spiritualità di Romero, quasi si volesse sottrarre la sua figura alla concretezza della storia e dell’azione politica. Ma senza radici spirituali il personaggio  Romero non sarebbe esistito. Senza essersi costruito interiormente lungo una vita, avrebbe accettato di sacrificare la sua vita?”. Sono personalmente testimone di questa spiritualità sofferta di Romero, che ha permesso a un uomo, anche fragile personalmente, di resistere al male fino all’estremo sacrificio.

Ritorniamo un po’ di nuovo alle questioni del nostro tempo. Noi tutti sappiamo che in Iraq si gioca, in questi giorni, una vicenda decisiva. Una tragica questione umanitaria, attorno a cui se ne annodano altre fondamentali. A questo proposito ho letto qualche riga scritta da Andrea Riccardi sul messaggio di papa Francesco al segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, parole accorate e drammatiche: “metto davanti a lei le lacrime, le sofferenze e le grida accorate di disperazione dei cristiani e di altre minoranze religiose dell’amata terra dell’Iraq”. E’ un richiamo alla responsabilità della comunità internazionale. La vicenda dolorosa dell’Iraq rischiava di scivolare nella distrazione generale. Come davanti a tante tragedie, di cui vediamo le immagini, ci si chiede: che si può fare?” 

Che si può fare? Come non chiudere gli occhi davanti alla violenza? È una dolorosa questione che vivono anche i salvadoregni davanti al fenomeno della violenza sociale che ha invaso El Salvador dopo la guerra. 

 

Mi vengono in mente le parole del nostro amico Jaime Aguilar, della Comunità di Sant’Egidio di San Salvador, sulla vita di William Quijano, un giovane della Comunità che è stato ucciso dalla violenza terribile che abbatte la società salvadoregna dopo la guerra civile degli anni Ottanta. 

William é stato ucciso dalle “maras”, bande giovanili diventate oggi un nuovo fenomeno mafioso, con intrecci oscuri con il narcotraffico, con il coinvolgimento di circa 100.000 persone. Sono realtá molto violente, che impongono la loro autorità su interi quartieri dei centri urbani, ed ultimamente anche alla campagna. 

Credo che si possa dire che le cause fondamentali dello sviluppo delle "maras" siano collegate all’antico problema della diseguaglianza economica e alla mancanza di riferimenti familiari e sociali. Le "maras" propongono, in modo perverso, un’identità che ti fa sentire sicuro, una solidarietà e un sostegno vicendevole tra i membri. Rispondono inoltre al desiderio dei giovani di "contare" e di essere considerati importanti, attraverso la violenza. A questi elementi  si aggiungono il fascino dell’uso di un’arma e la tentazione del denaro facile. 

 

Anche io vorrei dare la mia personale testimonianza sulla vita e la morte prematura di questo caro fratello, perché le vicende legate al martirio sono sempre molto feconde per noi che viviamo come discepoli. 

Appena seppi della morte di William, scrissi un articolo, perché mi sembrava di vedere nella sua vita un segno per il futuro, secondo le parole della Chiesa espresse nella Grande Conferenza della Chiesa ad Aparecida in Brasile nel 2008:

La scelta per i poveri infatti era chiara nella vita di William, come laico e come cristiano. Questo l’ha portato a impegnarsi in sintonia con lo spirito umano e cristiano della Comunità che si impegna a riconciliare la società. Aparecida valorizzò i gruppi cristiani e cattolici come la Comunità di Sant’Egidio, con parole come queste: “Solo la fede che ci fa amici ci permette di apprezzare profondamente il valore dei poveri oggi, il loro legittimo anelito e il loro modo proprio di vivere la fede. L’opzione per i poveri deve condurci all’amicizia con i poveri. Giorno per giorno i poveri si fanno soggetti dell’evangelizzazione e della promozione umana integrale: educano i loro figli alla fede, vivono una costante solidarietà tra parenti e vicini, cercano costantemente Dio e danno vita al pellegrinare della Chiesa.”.

La testimonianza impegnata di William e il suo sangue versato rinverdisce la speranza che anima la Chiesa cattolica in America Latina. Speriamo nel sorgere di un’alba per il nostro continente, una nuova era di cristiani cattolici capaci di rinnovare la faccia di questa terra bagnata dal sangue dei martiri.

E’ nato un nuovo popolo dal grano della mia terra maturato dal sole del Vangelo, forgiato dalla verità e dallo Spirito che fanno liberi gli uomini”.

 

L’unica vera lotta alla violenza  si fa comunicando la cultura di pace e di modelli positivi per la vita di tanti giovani. Vero antidoto contro la violenza che si diffonde. Con fedeltà. Posso dire di aver accompagnato con il cuore, discretamente”, la Comunità di Sant’Egidio a san Salvador mentre lavorava con fedeltà in alcune zone marginali della cittá. Dopo più di 25 anni constato con gioia che questa esperienza ha dato frutti importanti. La comunità continua ad aprire spazi di pacificazione, è una esperienza, è una benedizione e una via di speranza e di luce per la vita di molti giovani, destinati molte volte a vivere in quegli ambienti di violenza e di dolore.   

Sono testimone nella mia parrocchia, dove sono parroco da 28 anni, che la scuola della pace di Sant’Egidio é un modello positivo per trasformare la vita. Educare nella pace, può cambiare molte realtà e creare una nuova identità che permette di vivere lontano dalla violenza. Ma allo stesso tempo, accompagnare i bambini nel tempo libero, per non lasciare opportunità alle maras di lavorare con loro. Molto grato, devo dire che grazie al lavoro della Comunità di Sant´Egidio con i bambini delle zone povere della mia parrocchia, non c’è nessuna mara nel territorio della mia parrocchia. Al contrario, alcuni di questi bambini arrivati alla gioventù, sono stati beneficati dal dono di borse di studio che hanno permesso loro di continuare a studiare. 

Mi sembra di poter indicare due segreti preziosi nella vita di William e della Comunità di Sant’Egidio nel mio paese:

il primo è racchiuso in un lemma della comunità “nessuno è così povero da non poter aiutare un altro piú povero” tutti possono aiutare, persino chi vive in luoghi violenti. Lo stesso William Quijano viveva nel quartiere forse più violento del Salvador e ha dato la sua testimonianza vera della scelta di vita a cui tanti giovani aspirano.

L’altro è il segreto di tutti i martiri, dare la vita. Coinvolgere giorno per giorno la propria vita, mischiarla con il Vangelo. Diceva monsignor Romero “dare la vita non è solo l’effusione del sangue, dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco Come la dà una madre, che senza timore, con la semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. E' dare la vita. E' martirio”.

William ha lavorato nel suo distretto, quello di Apopa. Amava la vita e in maniera amichevole ha attratto molti giovani e bambini alla “Scuola della Pace”, La sua vita testimonia che si può fare il bene, vivere in modo pacifico e solidale anche in mezzo alla violenza cieca, alla morte e alla mancanza di pietà. William ha vissuto l’amore per la pace fino al sangue. È un vero martire del nostro tempo. 

William non si è mai rassegnato, non ha cambiato città, non è fuggito da quella situazione ma è rimasto nel suo quartiere perché voleva trasformare Apopa. Voleva trasformarla attraverso i giovani stessi. In lui non c’era un gesto di rancore, né di odio verso le maras, cosa molto comune oggi nella nostra società. Guardava con dolore la vita di molti giovani, li invitava a cambiare, lui usava molto la parola cambiare, cambiare vita, cambiare la società. E si impegnava sempre ad aiutare i giovani, a fare la Scuola della Pace, organizzava partite di calcio nel quartiere, era loro amico, i giovani lo seguivano, al suo funerale i giovani della sua città erano presenti in tanti. 

Il 28 settembre del 2009 è stato assassinato di fronte a casa sua. Sulla sua morte ci sono tante testimonianze, vorrei riportarne una di una sua collega di lavoro che racconta della storia di amicizia che lei e William avevano con un giovane, a cui pagavano gli studi, compravano ciò di cui aveva bisogno, vestiti ed altro. Questo ragazzo gli raccontava sempre che altri ragazzi più grandi lo invitavano a far parte di una mara. Quelli della mara gli dicevano di non stare con William, di allontanarsi da lui. D’altro canto William conosceva quelli che volevano controllare la vita di quel giovane e diceva loro di lasciarlo tranquillo, di lasciarlo in pace. La resistenza quotidiana al male unisce in un filo invisibile nel tempo, martiri come Romero o William Quijano a tanti cristiani che oggi in comunione con la sapienza di Papa Francesco, vivono lottando contro la violenza.

 

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