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Ajuda la Comunitat

  
6 Setembre 2012

Sarajevo 20 anni dopo: Sopravvivere alla pace

«Sono trascorsi ormai vent`anni dall`inizio del tragico assedio di Sarajevo. Oggi, alla vigilia Dell`incontro voluto dalla Comunità di Sant`Egidio, la situazione resti tesa e non si può certo dire che sia avvenuta una vera riconciliazione tra le comunità nazionali e religiose che fanno della capitale della Bosnia Erzegovina la «Gerusalemme d`Europa».

 
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Trasparenti sudari avvolgono ancora la Vijecnica, la biblioteca custode della multiculturalità del Paese, veli colorati avvolgono i volti di ragazze in abiti molto curati. L`aspetto rilassato dei clienti ai bar all`aperto convive con la mano tesa di donne che chiedono l`elemosina Alla trama di musica e risa delle notti d`estate in Bašcaršija risponde il silenzio dell`alba che profuma ancora del fumo di carbone delle grigliate quando i piccioni riaprono gli occhi sulla fontana di Sebilj per dissetarsi. In via Beseske, il Maritale si cobra di mirtilli e lamponi, sui marciapiedi anziane venditrici stendono ciò che hanno, mentre avanza il restauro della linea tranviaria per accogliere meglio gli ospiti dell`Incontro mondiale per la pace di settembre. L`enigmatica Sarajevo si è dischiusa giorno per giorno attraverso fascinose quinte e anime affabili, come quelle dei mistici sufi della tekija Mesudija di Kacuni, un piccolo paese nella verde montagna. La prima persona che incontriamo è Kanita Ita Focak, architetto, interprete giudiziaria in italiano e bosniaco, una donna che incarna molteplici culture e un`essenziale eleganza. «A Sarajevo abbiamo perso 16 mila persone, morte anche per cause secondarie. In tutta la Bosnia sono stati commessi crimini immensi, i nostri bambini sono rimasti orfani, non si sa quante siano le vedove». Lei ha perso il marito, bosniaco musulmano, all`inizio della guerra, colpito in casa da un proiettile; il più piccolo dei due figli aveva tre anni. «A Natale lui veniva con me alla Messa di mezzanotte, a Ramadan io andavo con lui alla recitazione del Corano. Molte delle mie amiche del liceo hanno formato coppie di religione e nazionalità mista che sono sopravvissute alla guerra. Noi stesse siamo un cocktail e ci vogliamo ancora bene». Prima del 1992 famiglie miste ce n`erano molte, ora sono diminuite, ma resistono. La sofferenza ha unito i cittadini di Sarajevo, una città che in pochi metri quadrati ospita la sinagoga sefardita, la moschea di Gazi Husrev-Beg, la cattedrale ortodossa della Natività e quella cattolica del Sacro Cuore. Kanita aggiunge alla lista il «triangolo magico», tre luoghi di pellegrinaggio amati da tutti: la chiesa francescana di Sant`Antonio da Padova, il Mausoleo dei sette fratelli e l`antica chiesa ortodossa di San Michele, meta di donne che non riescono ad avere figli. «La gente semplice, adesso, vuole solo vivere, trovare lavoro e ricostruire la casa. Ma i nostri politici, invece di governare, litigano per il potere. Ora dobbiamo sopravvivere alla pace». In un bar frequentato da studenti sulla riva destra della Miljacka, incontriamo Senadin usabegovic, docente universitario di Teoria della cultura e delle arti visive, che durante l`assedio era membro dell`esercito bosniaco. «Sarajevo si è ripresa urbanisticamente, ma non spiritualmente. Dayton ha solo surgelato il conflitto. È in atto una segregazione nazionalista e una economica causata da un capitalismo selvaggio che rompe ogni legame sociale. La maggior parte dei giovani sono passivi. La città è movimentata, la crisi non si vede ma c`è ed è più pericolosa». Lo confermano i dati fornitici da Gabriele Liotta e Grazia Redolfi, caschi bianchi in servizio alla Caritas della Conferenza episcopale della Bosnia Erzegovina che realizza progetti di assistenza e promozione sociale anche nel network Kohko con La Benevolencija (ebraica), Merhamet (musulmana) e Dobrotvor (ortodossa).
Il rapporto Caritas 2010 registra un 27% di disoccupazione e un 20% di persone sotto la soglia di povertà. Settantamila persone nel Paese usufruiscono di mense pubbliche, a Sarajevo 500 frequentano quella francescana e 300 quella della Caritas. Anziani e disabili sono i più disagiati, molte donne sono a rischio tratta e i giovani non vedono futuro. Il centro giovanile diocesano loan Pavao II, diretto da don fimo Martic, offre loro formazione e speranza e li coinvolge in campi ecumenici con i coetanei ortodossi. Nel palazzo liberi sulla Titova l`associazione croata Napredak continua la sua missione culturale iniziata nel I 902. È presieduta dal 1990 da monsignor Franjo Topic, docente di Teologia fondamentale, grande tessitore di relazioni, amico dei musulmani bosniaci che lo volevano sindaco. Mentre attraversa il centro città molti lo fermano per salutarlo. «Durante la guerra preparavamo 150 pasti al giorno, distribuivamo medicine, organizzavamo concerti e mostre. Oggi pubblichiamo quattro piccoli giornali, abbiamo una radio e una biblioteca, gruppi folkloristici e 20 mila membri di diverse nazioni». Sul Trebevic, la montagna dei cecchini serbi, con l`aiuto del Movimento cristiano lavoratori, di Governi e sponsor, l`associazione ha realizzato nel 2007 un centro multimediale per il dialogo. «Napredak è diventata una realtà straordinaria che include musulmani, ortodossi e laici. La montagna, che era un sito turistico, con la guerra è diventata una linea di divisione. Noi abbiamo voluto crearvi un luogo di riconciliazione». La casa, motto accogliente, si affaccia sulla città a 1.1 00 metri d`altezza; è circondata da boschi rigogliosi; più in basso i resti delle strutture olimpiche e cupe tracce di guerra. A Sarajevo ogni moschea, insieme all`acqua della sua fontana che non lascia mai nessuno assetato, ha un colore e un profumo particolare da offrire. Emir Kovacevic rappresenta la comunità musulmana come senior adviser nel Consiglio interreligioso di Bosnia Erzegovina «Cerchiamo di promuovere relazioni tra persone di diverse comunità: c`è ancora molto da fare. Abbiamo prodotto per lo Stato la bozza della nuova legge sulla libertà religiosa, organizziamo incontri tra giovani teologi, monitoriamo la situazione, promuoviamo seminari per giovani, donne e formatori. Utilizzando il metodo del consenso, non affrontiamo i temi su cui non siamo d`accordo».

Kovacevic tocca una nota dolorosa, per i musulmani e non solo: «Oggi molti chiedono che gli autori del genocidio di Srebrenica e degli altri crimini di guerra ammettano le loro responsabilità. Occorre far rispettare il verdetto della Corte internazionale di giustizia che ha riconosciuto il genocidio. Negandolo non si rispettano le vittime e si continua la violenza». Al termine del colloquio ci dona il calendario interreligioso con le feste delle quattro comunità pubblicato dal Consiglio, che è stato fondato nel 1997 dal cardinale Vinko Puljic, dal metropolita Nikolaj, dal gran muftì Mustafa Ceric e dal presidente della comunità ebraica Jacob Finci. La storia degli ebrei di Bosnia inizia con l`accoglienza accordata dagli ottomani ai sefarditi espulsi dalla Spagna a fine Quattrocento; quattro secoli dopo, con gli austriaci, arrivarono gli ebrei ashkenaziti. «La comunità si costituì ufficialmente nel 1565, la prima sinagoga è del 1581. Nella Shoah l`85% dei membri è scomparso, un migliaio se n`è andato nel 1992, di cui quasi la metà è tornata», racconta Jacob Finci nella sede della Benevolencija, al piano terra del bel tempio ashkenazita dove ogni venerdì sera si accoglie lo shabbat in lingua ebraica e giudeo-spagnola. «Solo in Bosnia può accadere che in una sinagoga ashkenazita si preghi in rito sefardita. Siamo un migliaio di persone, di cui 400 a Sarajevo. In tre anni abbiamo avuto quaranta funerali e solo due nascite. Ora venticinque giovani sono tornati per frequentare l`università, chissà se rimarranno». Durante l`assedio tanti sarajevesi sono stati sfamati dalla comunità ebraica che non faceva preferenza di persone. Il residente, il primo della famiglia dopo 350 anni a essere stato partorito fuori Sarajevo, è nato nell`isola di Rab, in un campo d`internamento italiano, prevede che sarà l`ultimo Finci a essere sepolto nell`antico cimitero ebraico sulla collina, perché i figli si sono trasferiti in America. Tuttavia, appare sereno: «Qui siamo sempre stati insieme; seppur minoranza, siamo trattati alla pari. II dialogo è permanente sia tra i leader che alla base. A Sarajevo sono venuti da Israele rabbini e imam per discutere di teologia, segno che la città rimane un buon terreno per il dialogo». È appena tornato da un incontro interreligioso a Tunisi monsignor Mato Zovkic, già docente di Nuovo testamento in seminario e storico delegato diocesano per l`ecumenismo. È dubbioso sulla possibilità di riconoscere in Sarajevo un simbolo di convivenza: «In passato c`era sempre un capo: nel periodo ottomano i primi cittadini erano i musulmani, in quello austriaco i cattolici, nella YugoslaVia gli ortodossi. C`era tolleranza, ma non democrazia. Oggi abbiamo l`opportunità di costruire una società mista, davvero democratica. Ma c`è un problema; ciascuno vede solo le ferite della propria gente e non le atrocità commesse dai propri soldati, Vorrei che noi cristiani avessimo il coraggio di ammetterle». Anche il segretario della diocesi di Dabar-Bosnia della Chiesa ortodossa serba, il diacono Mitar Tanasic, adolescenza da profugo, segnala i problemi: «Finita la guerra, il nome, la religione, la nazionalità sono diventati discriminanti. Per un serbo è difficile trovare lavoro a Sarajevo, per un croato o un musulmano bosniaco nella Republika Srpska: i rapporti si sono rovinati. La nostra comunità cittadina aveva 150 mila persone prima del 1992; oggi sono 7 mila, soprattutto anziani. Abbiamo imparato ad avere buoni rapporti dì vicinato sotto diversi imperi, ma quando qualcuno ha appiccato il fuoco tra le nazioni tutto è bruciato. II fuoco c`è ancora, cerchiamo di controllarlo».

Lo scrittore Tvrtko Kulenovic, padre bosniaco e madre ortodossa, dal fine humour balcanico, costretto a riceverci attorno al suo letto che guarda campanili e moschee, ricorda l`amata Sarajevo d`un tempo: «Era una città normale con differenze normali. Ognuno era quello che era, ed eravamo tutti yugoslavi». Già direttore del Teatro nazionale, presidente del Pen Club, Kulenovic rievoca i giorni bui dell`assedio e spiega che l`arte è stata l`ancora di salvezza. «Era la prova che eri ancora vivo, altre non ce n`erano». Oggi vede la normalità distrutta a causa della corsa alla ricchezza e al potere: «C`è chi dice che fosse meglio durante la guerra; per me no, ma è bruttissimo. Ora i persecutori sono i ricchi, la gente importante, i trafficanti di droga e di donne. C`è di tutto». Non ha dubbi: ha ragione l`amico Danilo Kiš, che ha citato nel libro di autori vari Sarajevo. I giorni dell`assedio: «È meglio se ci troviamo tra i perseguitati che non tra i persecutori. Perché meglio? Perché tra i perseguitati ci sono le persone migliori».


Monsignor Sudar:

pace, giustizia e perdono

Il vescovo ausiliare di Sarajevo, Pero Sudar, stupisce sempre per la sua gentilezza. Accoglie l`ospite all`ingresso dell`episcopio, l`intrattiene a cena dopo un aperitivo alla bosniaca, e si coinvolge totalmente nell`intervista. La sua giornata non finisce qui: l`attende una riunione alle Scuole cattoliche interetniche, di cui è stato fondatore nel 1994. Altri incarichi lo impegnano, dentro e fuori il Paese. Lui li assolve senza trascurare gli amici che vengono a trovarlo.


Qual è la situazione in Bosnia?

«È difficile fare una diagnosi dello stato attuale. La soluzione politica imposta a Dayton per fermare la guerra ha reso impossibile un progresso sociale, politico ed economico in una società fatta dí diverse componenti religiose e culturali. Le tensioni sono più grandi e più pericolose oggi che nell`immediato dopoguerra e manca completamente una prospettiva. Inoltre, non siamo mai passati da una mentalità che vede le differenze come una condanna a una che le considera un`opportunità».

 

Qual è il nodo politico?

«Siamo in presenza di visioni opposte: i serbi vogliono che la Bosnia Erzegovina funzioni come due Stati, i bosniaci musulmani desiderano un unico Stato centralista e i croati, il popolo più piccolo, temono di rimanere senza niente. Ecco perché, dopo le elezioni, per tredici mesi non è stato fatto il Governo; e ora è di nuovo in crisi. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale, la Bosnia Erzegovina non può funzionare come uno Stato unitario: la sua configurazione non lo permette. Questo sistema ha creato tanti disoccupati e poveri, ma è tollerato dai nostri politici che lo usano per incolparsi a vicenda. È facile dire che la causa dei nostri mali è la Republika Srpska: tutti in Federazione lo dicono, specialmente i bosniaci musulmani. Dall`altra parte i politici serbi dicono "se fossimo liberi basterebbe staccarci dalla Bosnia Erzegovina, riunirci alla Serbia e risolveremmo i nostri problemi". Purtroppo Dayton permette ai politici di rimanere al potere e di smembrare ancora di più lo Stato» La popolazione come reagisce? «Oggi, all`ospedale, una dottoressa musulmana mi ha presentato a un`amica dicendole: "Questo è il nostro vescovo". Certo non pensa che io sia il vescovo dei musulmani, ma crede che appartengo a loro come tutti noi ci apparteniamo. Ammiro la nostra gente perché, nonostante tutte le ingiustizie sofferte per secoli, resiste. Ecco perché, dove la soluzione politica lo permetteva, i profughi sono tornati. Nei cantoni misti della Federazione sono tornati sia i croati che i bosniaci musulmani. Invece nei cantoni in cui il potere è o dei croati o dei bosniaci musulmani, e nella Republika Srpska, non sono tornati. Inoltre, nonostante certe famiglie abbiano perso il 90% dei membri, non ci sono né attentati, né vendette, e nonostante le forze multinazionali siano percepite come responsabili del dopoguerra, sono rispettate. La maggior parte della nostra gente, eccetto i gruppi estremisti, sa vivere insieme e aiutarsi. Sono un po` deluso da chi è al potere e non ha compassione della gente che soffre e dí questo Paese sempre più abbandonato dai giovani».

 

Le ferite di guerra si sono cicatrizzate?

«Molta gente affida a Dio la propria causa e cerca di continuare a vivere. Anche oggi quando si parla dei carnefici è difficile sentire condannare il loro popolo. Non c`è un popolo che abbia una colpa comune, ci sono colpevoli da identificare. Allora direi che le ferite non sono guarite, ma emerge una grande forza, sorretta da una semplice ma profonda fede. Purtroppo non siamo passati dalla convinzione di dover perdonare alla convinzione che il perdono aiuta me stesso a guarire e apre il Paese a una prospettiva nuova. La vendetta non soltanto non risarcisce chi è stato ucciso, ma uccide i sopravvissuti. Dovrebbe avviarsi un processo molto delicato che richiede una cornice politica. Ma a volte i leader, anche quelli religiosi, dicono: "Cerchiamo di perdonare, ma dimenticare, mai". È vero che dimenticando si rischia di ripetere, ma come posso dire ``non dimentico mai, però perdono"? Non è possibile».


Il processo che lei auspica sarebbe agevolato punendo gli autori dei crimini?

«Giustizia si deve fare, ma se aspettiamo di perdonare dopo averla realizzata in pieno non ci arriveremo mai. Solo se le diverse componenti della società sono riconciliate e disposte a collaborare potremo anche condannare i colpevoli. Perciò dobbiamo cercare di perdonarci e poi purificare la memoria storica: un nodo dolente, perché qui abbiamo tante storie e interpretazioni. Per qualsiasi mio amico musulmano bosniaco i turchi sono i liberatori, per me sono gli aggressori. Gli austriaci per un bosniaco musulmano sono occupanti, per me no. Abbiamo diverse visioni, però ci dovrebbe unire il bene delle nuove generazioni e della nostra immagine davanti a Dio, Qui ogni popolo è stato vittima; se torniamo sempre lì non abbiamo futuro. In questo senso non possiamo pretendere solo giustizia, ma l`amore per l`essere umano e la sincera fede in Dio che ci chiede di amare. Se in Bosnia abbiamo convissuto per secoli e oggi non è più possibile, mi domando in quale Paese sia possibile. Se non accettiamo di vivere tra diversi rispettandoci e collaborando, la pace non ci sarà. Penso che la Bosnia Erzegovina sia un paradigma del mondo e che in nome dell`etica planetaria di cui tanto si paria bisognerebbe adottare un altro approccio».

 

Come sto agendo il Consiglio interreligioso della Bosnia Erzegovina?

«Ci sono molti contatti tra le comunità, anche oltre questo Consiglio che ha una grande gamma di iniziative. Però, devo essere sincero, mi sembra che non siamo ancora maturati nella fede per riconoscerci nelle nostre differenze come figli di Dio. Se non c`è non solo rispetto, ma amore tra noi cattolici e gli ortodossi perché Cristo che ci unisce ci spinge all`amore, i nostri sforzi per l`unità dei cristiani sono inutili. Se io non amo i musulmani che credono in Dio, perché Dio me lo chiede, i miei tentativi di dialogo sono vani. In questo senso manca in Bosnia Erzegovina un contributo delle religioni. Noi ci frequentiamo, ma non vedo alla base la simpatia, l`ammirazione per il modo di pregare dell`altro e per la sua dipendenza da Dio. Lo dice anche il Concilio Vaticano II: se un uomo ha scoperto Dio in un modo diverso dal mio e lo serve, è un fedele degno di rispetto e, ritengo io, d`amore. Se io come cristiano non sono contento perché ci sono anche tanti uomini che credono in Dio nella loro maniera, e sono felici e buoni grazie a questa fede, allora devo dubitare del mio modo di credere e di seguire Cristo».


Come guarda all`Incontro mondiale per la pace che si terrà a Sarajevo?

«Siamo grati a Sant`Egidio per aver scelto Sarajevo. Mi auguro che al centro di quest`incontro ci sia la causa della Bosnia Erzegovina e che non ci si fermi all`immagine. Sarajevo non è una vetrina, ha bisogno di chi ama la sua gente, di chi sa quanto sia importante il futuro dei popoli della Bosnia Erzegovina per l`Europa e per il mondo. Spero che anche quest`occasione serva per avvicinare noi che viviamo qui e per far capire ai potenti cosa occorre fare e come attuarlo».

 

"Uomini e religioni" va a Sarajevo

In occasione dell`Incontro mondiale per la pace "Uomini e religioni" 201 2 promosso dalla Comunità di Sant`Egidio, dal 9 all`11 settembre Sarajevo avrà 400 ospiti da 70 Paesi: leader religiosi (tra cui il patriarca serbo ortodosso lriney e il rabbino capo se far dita di Israele Shlomo Amar), esponenti politici (dall`Italia il Presidente del consiglio Monti e il ministro Andrea Riccardi), personalità della cultura. La cerimonia d`inaugurazione sarà ospitata la domenica al Centro sportivo di Skenderija, poi si svolgeranno due giorni di discussioni in 30 gruppi di studio sui temi conflitto, convivenza, ecologia, Balcani, giovani, pace. Parteciperanno all`incontro organizzato da Sant`Egidio in collaborazione con l`arcidiocesi di Vrhbosna-Sarajevo, il Consiglio interreligioso di Bosnia Erzegovina, il patriarcato serbo, la diocesi ortodossa di Dabar-Bosnia, le comunità ebraica e islamica, il Centro giovanile diocesano cattolico loan Pavao II, credenti cristiani, buddhisti, shintoisti, hinduisti, sikh, giainisti, zoroastriani. Ogni gruppo confessionale celebrerà momenti di preghiera distinti. La cerimonia finale si svolgerà in centro città. «Durante i giorni dell`incontro Sarajevo avrà l`aspetto di una cittadella della pace», commento Alberto Quattrucci, segretario del dipartimento per il dialogo interreligioso della Comunità di Sant`Egidio, incaricato di coordinare il progetto. «il dialogo va avanti con incontri dentro la storia. La guerra è stata un male per tutti; è stato fatto un uso della religione come fattore di contrapposizione in una situazione in cui non era in dubbio la convivenza. Occorre ora trovare vie per un riconoscimento reciproco»


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