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29 Januar 2015

Come evitare il reclutamento in Occidente

Alle periferie del Jihad più simboli e assoluti

, , Jugend
 
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Gli jihadisti nati e cresciuti in Occidente hanno tutti (o quasi) un comune identikit: vita nelle periferie, fallimento scolastico, piccola delinquenza, carcere, islamizzazione e radicalizzazione, a volte telematica. I centri di reclutamento sono le periferie, spesso abbandonate in favore della "città utile". Come hanno dichiarato i sindaci delle banlieues francesi, i loro territori sono oggi il teatro delle contraddizioni, debolezze e impotenza della nostra società. Paradossalmente le periferie sono il centro del problema, diventando motore di una storia alternativa, sfidando i "centri direzionali".
Non a caso papa Francesco da tempo attira la nostra attenzione sulle «periferie umane ed urbane». Il fenomeno delle periferie si verifica ad ogni latitudine, è una conseguenza dell’urbanizzazione del mondo e dell’abnorme crescita di megalopoli. In America Latina è nota la presenza di contropoteri come narcotraffico e maras (gang giovanili). In Europa c’è il problema delle banlieues e delle seconde-terze generazioni immigrate. In Africa nascono conflitti etnici e si trova la manodopera per i signori della guerra. In ogni caso e in ogni contesto, al cuore della vicenda vi è una massa di giovani irrequieti, alla ricerca di una sorta di riscatto dall’anonimato, dall’esclusione e, soprattutto, dal vuoto esistenziale. «Se la vostra democrazia è quella delle banche, perché difenderla?», chiede al-Baghdadi ai candidati del jihad, facendo leva su frustrazione, rancore, esclusione e vuoto. La domanda ha impatto e interpella i molti esclusi dall’attuale modello. Interpella anche tutti noi.
Nelle «periferie urbane e umane» c’è una generazione marginale che si sente "scarto" e – alla fine di un processo di radicalizzazione – accetta di sottomettersi a identità artefatte e malvagie. Non possiamo concentrarci solo sulle "città utili", altrimenti l’assenza dello Stato (dalla polizia ai servizi pubblici) verrà presto colmata dal potere oscuro e alternativo di organizzazioni criminali o terroriste. 
Non è solo un problema di stato sociale da affrontare con più risorse. Si tratta di simboli e valori. Gli jihadisti occidentali sono quasi tutti giovani maschi, con un distorto sentimento di identità. Un’identità recuperata con una specie di bricolage: un misto di fallimenti, umiliazioni e pregiudizi. Come scrive Luigi Zoja, «vanno via da», rifiutano il nostro mondo – il loro – perché troppo materiale, pratico, senza assoluti. Is e al-Qaeda fanno leva su tale debolezza, che conoscono bene, proponendo un islam totalizzante. Qualcosa cioè che sembra riempire la vita. Con loro, infatti, chi ci parla? Ogni generazione fa i conti con fenomeni di questo tipo. Dovunque troviamo giovani alla ricerca di senso e di impegno che può incontrare risposte pervertite, predicazioni nichiliste dell’odio. Il giovane che si imbarca nel jihad, così come il marero o l’adepto dei signori delle mafie e della guerra, sceglie una specie di "eroismo senza ritorno" che, dietro una parodia di sacrificio, abbraccia la morte. Ognuno di loro sa che avrà vita breve. Tutto ciò nasconde anche una brama distorta di protagonismo individuale e di utilità. Così, senza alternative, si lasciano manipolare da qualche "grande vecchio" o "cattivo maestro". È già successo. 
La vera risposta è perciò sul lungo periodo e di tipo culturale e ideale, nel senso ampio della parola. Abbiamo bisogno di utopie, simboli e testimoni "buoni" da contrapporre. Dobbiamo saper comunicare il valore universale della convivenza e della democrazia, accettando la critica e sviluppando l’autocritica al nostro egoismo quando la democrazia si trasforma solo in "mercato". Dobbiamo poter trasmettere un’idea umana di globalizzazione come incontro tra diversità, non irriducibili, ma di reciproco arricchimento. Ciò è possibile solo superando l’ipocrisia del "pensiero unico", lavorando per diminuire le diseguaglianze, per non ghettizzare, per ridare un orizzonte di speranza ai giovani. 
Per questo occorre ripartire proprio dalle periferie. Dalle lì viene la riposta al problema: rimesse al centro si scoprono come luoghi vitali, piene di umanità dignitosa e di valori incarnati da testimoni che non si arrendono allo spirito del tempo.


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