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Riforma

17 Februar 2015

Un canale umanitario

 
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«L'apertura di un canale umanitario per l'accoglienza dei profughi è una questione di coscienza». All'indomani dell'ennesima strage nel Canale di Sicilia che ha causato oltre 300 morti (9 febbraio) lo afferma, intervistato dall'agenzia Nev, il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), pastore Massimo Aquilante, di ritorno dal Marocco, uno dei paesi nordafricani più interessati dal transito dei profughi. La missione, realizzata insieme a esponenti della Comunità di Sant'Egidio, si inserisce nel quadro del programma Mediterranean Hope, un'iniziativa della Fcei che comprende varie strutture: un Osservatorio sulle migrazioni mediterranee che opera stabilmente a Lampedusa; una Casa delle Culture aperta a Scicli (Rg) come spazio interculturale da una parte e centro di accoglienza per soggetti vulnerabili (minori non accompagnati, donne) dall'altra; un ufficio per la ricollocazione dei profughi e dei richiedenti asilo che opera a Roma.
- Pastore Aquilante, perché questa visita in Marocco?
«Rispondo a poche ore da una ennesima, intollerabile strage, una strage che poteva essere evitata. La nostra coscienza di evangelici e di europei si ribella all'idea di un muro tra l'Europa e il Nord Africa, sul quale ogni anno muoiono migliaia di persone. Siamo di fronte a un fenomeno globale, quello di flussi migratori che dall'Africa centrale arrivano al Nord Africa e da qui si spingono fino all'Europa. La gente fugge perché collassano gli stati, scoppiano guerre civili, avanza la desertificazione, si perseguitano i cristiani e si bruciano le chiese. Di fronte a queste tragedie e alla rilevanza di questi fenomeni ci sembra di dover rompere lo schema che contrappone l'Europa che subisce l'immigrazione e l'Africa che la genera. E tutto più complicato perché alcuni paesi come il Marocco stanno diventando essi stessi paesi di immigrazione, e si preparano a riconoscerlo anche sul piano legislativo. Siamo andati in Marocco per capire meglio queste dinamiche ma soprattutto per avviare o rafforzare la collaborazione con chiese sorelle, associazioni e istituzioni. Insieme speriamo di svolgere un'azione sempre più efficace per la difesa dei diritti umani, la tutela dei migranti e dei richiedenti asilo, lo sviluppo di adeguate politiche di accoglienza e di integrazione».
- Che cosa l'ha colpita di più nel corso della visita?
«Le reti metalliche che tagliano le spiagge che scorrono tra il Marocco e l'enclave spagnola di Ceuta: un confine innaturale, lungo il quale sono morte centinaia di persone. I ragazzi subsahariani che vivono nelle foreste in prossimità del confine nord del Marocco e che sperano di riuscire "in qualche modo" ad attraversarlo, anche rischiando la vita. I ragazzi che, passato il confine di Ceuta, vivono ín un centro di accoglienza nel quale hanno a disposizione computer e palestre e dal quale possono liberamente entrare e uscire».
- La domanda è sempre la stessa: che cosa si può fare concretamente?
«La risposta corre sempre su un doppio binario. Servono politiche di accoglienza e di integrazione sostenibili e ispirate ai principi umanitari. Chiudere le frontiere, sospendere l'operazione Mare Nostrum, trasformare i centri di accoglienza in luoghi di detenzione, lasciare l'Italia da sola a fronteggiare la sfida delle migrazioni mediterranee non è degno della cultura e della tradizione giuridica europea che ha concepito diritti umani universali e che si ispira a principi di solidarietà. Ormai i morti "di immigrazione" nel Mediterraneo si contano a migliaia e questo dato pesa come un macigno sulla coscienza dell'Europa. La nostra proposta è semplice: occorre aprire un canale umanitario che consenta ai profughi e ai richiedenti asilo di ottenere un visto di ingresso in Europa. Non chiediamo un'insostenibile apertura delle frontiere alle migrazioni di ogni tipo ma semplicemente un dispositivo di tutela dei diritti dei richiedenti asilo».
- Che riscontri avete avuto?
«In Marocco, positivi e incoraggianti. Siamo di fronte a un problema di portata eccezionale che non ha una soluzione facile, magica e buona per tutti i tipi di migranti. Quella dei corridoi umanitari è una proposta che riferiamo a persone che fuggono da persecuzioni, guerre e torture e che quindi hanno titolo per essere riconosciute come rifugiati. Ed è una proposta compatibile con altre in grado di risolvere i problemi di altri segmenti di migranti. Noi abbiamo scelto di concentrarci su un gruppo di persone particolarmente esposte e vulnerabili. Ora si tratta di far crescere questa proposta in Italia e in Europa, dialogando con le autorità responsabili e cercando di sensibilizzare l'opinione pubblica. Parliamo di un fenomeno troppo serio e grave per poterlo liquidare con qualche battuta razzista, cinica e da bar. E un lavoro informativo ed educativo che cerchiamo di fare anche attraverso l'Osservatorio di Lampedusa».
- Un'azione ecumenica?
«Sì. La delegazione in Marocco era composta da evangelici e da cattolici attivi nella Comunità di Sant'Egidio. Non è un partenariato nato per caso, vorrei dire che è il frutto di anni di incontri, collaborazioni e anche preghiere comuni. Ci unisce Lampedusa, e ciò che questo scoglio rappresenta nel dibattito sulle migrazioni di oggi. E insieme crediamo di poter vivere un ecumenismo attivo che speriamo possa dare frutti concreti e apprezzabili. Per noi non è solo un'azione umanitaria: è la risposta a una precisa vocazione insita nella nostra fede di cristiani».


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