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31 Marsch 2015

Anniversari. Andrea Riccardi ricostruisce le persecuzioni del 1915 e le collega al presente (saggio Laterza)

Cristiani e armeni a Mardin. Un secolo fa la strage rimossa

Il cinico calcolo dei Giovani turchi, laici: aizzare l'odio delle popolazioni islamiche

 
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Nella Turchia sudorientale, in una zona abitata prevalentemente da curdi, vi è una delle più belle città del Medio Oriente. È Mardin, una meta turistica premiata dall'Unesco per la straordinaria varietà della sua architettura religiosa: chiese, monasteri, moschee, sinagoghe, castelli medioevali. Oggi la sua popolazione è in grande maggioranza musulmana, ma nel 1915, quando fu teatro degli avvenimenti' evocati in un libro di Andrea Riccardi pubblicato ora da Laterza, i cristiani avevano nove chiese, tre conventi e formavano una sorta di catalogo vivente del Cristianesimo romano e greco: armeni in buona parte, ma anche cattolici di rito latino, ortodossi, assiri, siriaci, caldei, tutti assistiti dai loro vescovi e patriarchi. I campanili e i minareti svettano ancora sulla città, costruita sul pendio di una grande montagna, ma le comunità cattoliche e ortodosse sono oggi soltanto il pallido ricordo di un mondo in buona parte scomparso.
Questo libro (La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo, pp.240, €18) è anzitutto un'opera di pietà storica, scritta per ricordare la sorte dei cristiani d'Oriente, travolti anche in anni più recenti dalle guerre combattute in Libano, in Iraq, e in Siria. Riccardi dice implicitamente al lettore che la tragica cronaca delle persecuzioni subite dagli armeni agli inizi della Grande guerra non sarebbe completa se non ricordasse che il loro destino, in particolare a Mardin, fu condiviso dai cristiani.
Ma l'autore non è soltanto il fondatore della Comunità di Sant'Egidio e, quindi, un cattolico militante. È anche uno studioso a cui preme ricostruire il contesto storico di quelle persecuzioni. Nel luglio del 1914, quando il governo austro-ungarico inviò alla Serbia l'ultimatum che avrebbe scatenato la Grande guerra, la Turchia era appena uscita da una umiliante sconfitta nella Seconda guerra balcanica e dal colpo di Stato che aveva dato il potere ai «Giovani turchi» di Unione e Progresso. I suoi tre Pascià - Djemal, Enver, Talaat - erano ferocemente nazionalisti e profondamente convinti che la sovranità dello Stato ottomano fosse minacciata dalle continue ingerenze delle potenze straniere nella politica dell'Impero. Le sue finanze erano soggette alla vigilanza di banchieri europei, organizzati in una specie di Fondo monetario internazionale. Le comunità religiose non musulmane avevano potenti protettori stranieri: la Russia per gli ortodossi e gli armeni, la Francia e altri Paesi cattolici per i cristiani latini, la Gran Bretagna per i protestanti e gli ebrei. I trattati sulle capitolazioni avevano garantito alle comunità nazionali straniere una sorta di indipendenza giudiziaria, che intaccava profondamente la sovranità dello Stato.
Al nuovo governo di Costantinopoli la guerra europea parve una provvidenziale via d'uscita. Il 9 settembre 1914 fu annunciato al mondo che le capitolazioni sarebbero state abolite, con un documento in cui si affermava tra l'altro che l'abolizione avrebbe permesso di realizzare le riforme ripetutamente sollecitate dalle grandi potenze. Due mesi dopo, mentre la Turchia era da qualche giorno in guerra a fianco della Germania, fu proclamata la Grande Jihad. La guerra santa presentava in quel momento un doppio vantaggio. Forniva alle masse anatoliche, ancora devotamente musulmane, una motivazione spirituale sul campo di battaglia; e dava alle persecuzioni contro i cristiani una giustificazione patriottico-religiosa. Per quanto concerneva gli armeni, in particolare, la guerra contro la Russia avrebbe permesso al governo turco di trattare la loro comunità come una pericolosa quinta colonna. Armate di questi argomenti le autorità turche dettero il via alle deportazioni e ai massacri. Quando gli ambasciatori dei Paesi neutrali, fra cui Henry Morgenthau, rappresentante degli Stati Uniti, deplorarono i metodi utilizzati, Enver replicò con sfacciata franchezza: «L'odio tra turchi e armeni è così grande che dobbiamo farla finita con loro, altrimenti si vendicheranno su di noi».
I metodi usati per i massacri, come scrive Riccardi, furono una disordinata combinazione di violenza pubblica e organizzata, casuale e venale. Vi furono molti casi in cui gli armeni credettero di avere salvato la loro vita con il pagamento di esosi riscatti, ma caddero egualmente nella trappola della deportazione e dell'eccidio. Ve ne furono altri in cui pietosi musulmani cercarono di nasconderli e salvarli. E ve ne furono altri ancora in cui le vittime divennero merce da vendere e comprare. A differenza di ciò che sarebbe accaduto nella Germania di Hitler, fu molto più religioso e identitario che razziale, e colpì contemporaneamente, come nel caso di Mardin, altri cristiani.
Vi è in questa tragica vicenda un paradosso. Come ricorda Riccardi, gli strateghi dei massacri erano solo formalmente musulmani. I Giovani turchi conoscevano l'Europa, avevano avuto frequentazioni massoniche nelle capitali europee, invidiavano e ammiravano le società laiche, erano soprattutto nazionalisti e spesso atei. Usarono l'Islam per meglio motivare le truppe, i gendarmi, i funzionari dell'amministrazione imperiale a cui sarebbe spettato il compito di eseguire gli ordini del governo. Non fu il primo e non sarebbe stato purtroppo l'ultimo caso. Gli avvenimenti degli ultimi trent'anni, dalla guerra afgana a quella di Bosnia, dai massacri di Boko Haram in Nigeria a quelli dell'Isis in Iraq e in Siria, dimostrano quale uso perverso possa essere fatto della fede per accendere gli animi, alimentare l'odio e scatenare conflitti.


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