Paolo VI è stato «un Papa aperto ai cambiamenti ma perfettamente consapevole che questi non sono possibili senza gradualismo». Il professore Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, cesella così il ritratto di un Pontefice certamente complesso come Giovanni Battista Montini, chiamato sul soglio di Pietro nei burrascosi anni Sessanta e con il concilio Vaticano II da concludere dopo la profetica apertura del predecessore, Giovanni XXIII. E che domenica 19 ottobre papa Francesco proclamerà beato.
Qual è la modernità di Paolo VI?
«Non parlerei in astratto di modernità. Montini è un uomo che prima del pontificato lavora a Roma al servizio di Pio XI e Pio XII con un retroterra cattolico bresciano, ossia papale, innovatore, aperto ai tempi nuovi, alla democrazia. Non dimentichiamo che in un certo senso Paolo VI può essere considerato il cofondatore della Dc con De Gasperi. Poi nel '54 viene inviato a Milano come arcivescovo e qui si prepara in un certo senso al pontificato».
Il concilio Vaticano II è l'alveo naturale in cui si manifesta il suo profilo riformatore?
«Senza Giovanni XXIII non ci sarebbe stato il Paolo VI innovatore. Montini porta a termine il Concilio conducendo tutti su posizioni unitarie e con un messaggio incisivo, nel segno dell'apertura della Chiesa al mondo. Non a caso, dal '63, quando viene eletto, al '67 è un Papa popolarissimo proprio per questo».
Poi qualcosa si rompe, iniziano le contestazioni, sullo sfondo delle inquietudini del movimento sessantottino...
«Il biennio '67-'68 e le polemiche attorno alla Humanae vitae, l'enciclica che ribadì il no all'aborto e alla contraccezione, sembrano travolgere questa figura, rendendola impopolare al cospetto di tutti. Sembra quasi che il programma innovatore montiniano vada in crisi, travolto dalle contestazioni di interi episcopati, molti teologi, anche semplici fedeli».
C'è chi ha definito il prossimo Sinodo sulla famiglia un mini Concilio per la Chiesa. E molte sono le voci di dissenso che si levano nei confronti di papa Francesco. Si può fare un parallelo con quello che successe allora?
«Sono due vicende tra loro molto diverse, all'epoca c'era la cultura del '68, oggi siamo in un contesto storico completamente diverso, in un mondo globalizzato. Anche per l'oggi, senza dubbio, Paolo VI resta comunque una figura ispiratrice».
Qual è stato il risultato di questo travaglio che investe Montini?
«La Chiesa diventa plurale ma, ecco l'interrogativo, questo pluralismo non rischia di mettere in discussione l'unità stessa della Chiesa?».
Lei che risposta si è dato?
«Di fronte alla grande crisi, innegabile, Paolo VI seppe reggere il timone e compiere aperture importanti. È in questi anni che la Chiesa allarga gli orizzonti, abbraccia la modernità, diventa la Chiesa dell'ecumenismo, del dialogo anche con i lontani, dell'ansia della missionarietà».
Qual è il momento più importante di questo periodo?
«Sicuramente il Sinodo sull'evangelizzazione del '73-'74, che culmina con l'esortazione Evangelii nuntiandi, un documento fondamentale e profetico nel quale il Papa disegna la fisionomia di una Chiesa che deve essere estroversa e uscire per annunciare il Vangelo e giungere a tutti i lontani, al mondo secolarizzato, ai non credenti, al "cuore delle masse", come diceva Paolo VI».
Antonio Sanfrancesco
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