Normalità contro il caos. La risposta dei musulmani d'Italia ai fatti di Parigi è innanzitutto un rovesciamento di prospettiva, la necessità di usare parole "altre". Il profilo sulle vicende d'Oltralpe resta molto basso, eppure da alcune comunità impegnate, a Nord come a Sud, sono arrivati in questi tre giorni i primi "no" alla violenza dei terroristi. Non solo: sit-in e manifestazioni spontanee hanno interessato, in diversi casi (e con partecipazioni limitate) le nostre città. «La reazione agli attacchi avvenuti in Francia è stata all'inizio di rabbia e dolore. Poi è subentrato un sentimento quasi d'impotenza» racconta Sumaya Abdel Qader, membro del Caim, il Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, un passato tra i fondatori dei Giovani musulmani d'Italia. «Mi sono detta: siamo persone normali, disarmate. Cosa possiamo fare noi, nel nostro piccolo, se neppure un grande Paese come la Francia è riuscita a neutralizzare un'offensiva del genere?».
Il primo segnale è arrivato dall'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche italiane, che per bocca del suo presidente Izzedin Elzir ha ribadito ad Avvenire che «nominare il nome di Dio invano», come hanno fatto gli autori delle stragi, «è una bestemmia». «Sottoscrivo queste parole una ad una» osserva Sumaya che, dopo lo sgomento iniziale, ha condiviso con la sua famiglia e i suoi amici una riflessione molto semplice. «Ci siamo detti che dobbiamo continuare a essere buoni vicini di casa, bravi compagni di scuola, colleghi di lavoro. Se loro vogliono mettere paura e creare terrore, noi dobbiamo rispondere con la quotidianità del bene e con la normalità delle nostre azioni, che è proprio ciò che si vorrebbe rimettere in discussione».
Lo stato d'emergenza è il contrario della vita di tutti i giorni, è l'eccezione che punta a cancellare la regola. Poi c'è il lavoro nascosto, a partire dalle difficoltà che i percorsi d'integrazione incontrano. «La normalità può essere una soluzione sia per chi dice che la convivenza è impossibile, sia per chi sostiene che l'Occidente è marcio». Il riconoscersi «pienamente occidentali, in Italia come in Europa» è una delle novità più significative, uno dei punti di rottura rispetto al passato. Il cambio di marcia è nelle parole degli stessi Giovani musulmani d'Italia che, su Facebook, sono scesi in campo nelle ore immediatamente successive alle stragi schierandosi contro il terrorismo «senza se e senza ma» e contro «l'uso fraudolento della nostra religione». Direttamente in piazza, invece, ieri sera è scesa la Comunità di Sant'Egidio, con la solenne preghiera «Uniti nel dolore, riapriamo l'Europa alla speranza», la solenne invocazione per la pace in memoria delle vittime di Parigi, a cui ha partecipato, tra gli altri, il ministro Maria Elena Boschi.
A chi fa notare i problemi di rappresentanza del mondo musulmano, spesso frammentato e con voci dissonanti, le seconde e terze generazioni dell'islam italiano replicano che «non ci sono solo le questioni al nostro interno. C'è innanzitutto un fallimento delle politiche sociali e di integrazione. Da parte di tutti». Il fascino perverso del fondamentalismo, spiega Sumaya, «seduce soprattutto ragazzi che non hanno trovato una loro identità e che sono facilmente plagiabili». Ancora una volta, diventa determinante a tutte le latitudini, e per tutti i credi, l'impegno a formare sin da bambini «attraverso l'educazione, affinché tutti possano ad esempio studiare l'islam in modo equilibrato».
Mentre i riflettori sono puntati sull'azione degli imam, incalzati da più parti perché condannino apertamente (nei loro sermoni) la violenza estremista, su Intemet affiorano i primi sermoni, in italiano, dei giovani predicatori musulmani. «Agli imam di seconda generazione non chiediamo di tradurre i loro messaggi - sottolinea Sumaya -. Consideriamo fondamentale che parlino la nostra lingua italiana». E l'obiettivo, forse un po' di là da venire, di una comunità islamica plurale, in cui l'arabo non sia il linguaggio esclusivo, e nel frattempo arrivino anche segnali di apertura, innanzitutto nel conoscere (se stessi) e nel farsi conoscere (all'esterno). Per adesso, basterebbero piccoli segnali di buona volontà: gli incontri con la gente nelle piazze, l'impegno nel volontariato, l'integrazione sui banchi di scuola. «Di certo, non ci chiuderemo in un angolo a piangerci addosso. Il cammino non è facile ma va avanti, non cediamo al ricatto degli estremisti».
Diego Motta
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