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La Provincia di Varese

10 Agosto 2014

L'intervista ad Andrea Riccardi

Il fondatore della Comunità di Sant'Egidio «Da Aleppo a Gaza mai rassegnarsi ai conflitti armati»

 
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Dalla fondazione della Società delle Nazioni, nel 1919, alla caduta del Muro di Berlino, settant'anni dopo, a più riprese il XX secolo ha coltivato il sogno di una pace durevole in tutto il mondo. Questa speranza sembra però avere lasciato il posto, negli ultimi tempi, alla disillusione: «L'opinione pubblica- riconosce lo storico Andrea Riccardi - è stanca di assistere a conflitti apparentemente insolubili e talvolta incomprensibili, in cui è difficile distinguere le cause e ripartire le responsabilità tra le parti in lotta». Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, ordinario di Storia contemporanea all'Università di Roma Tre nonché ministro perla cooperazione internazionale e l'integrazione nel governo Monti, è stato a Bergamo per tenere una relazione sul tema «San Giovanni XXIII: l'uomo dell'incontro», su invito dell'Ente Bergamaschi nel mondo e della Fondazione Papa Giovanni XXIII. A lato della conferenza, lo abbiamo intervistato sugli attuali scenari di guerra - dalla crisi Israele palestinese, alle ferite aperte in Siria e Iraq fino all'Ucraina- e sulle difficoltà della comunità internazionale a trovare delle soluzioni.

Professore, con la caduta del Muro di Berlinosi era pensato che potesse realizzarsi il sogno di una pace equa tra i popoli. A distanza di 25 anni,invece, pare tornata attuale la sinistra definizione di Von Clausewitz della guerra come «continuazione della politica con altri mezzi».
«È vero, con la fine della Guerra fredda si era sperato che potessero cessare anche i "conflitti per procura" fino ad allora combattuti tra Paesi alleati delle due superpotenze, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Questo auspicio non si è realizzato: sono invece iniziate nuove guerre, a cominciare dai Balcani, dove il nazionalismo, che si pensava ormai estinto, è rinato in forme particolarmente aggressive. Pensiamo anche alla situazione in Medi Oriente, alla guerra civile in Mozambico (che è terminata nel 1992 dopo aver causato un milione di morti) e al genocidio ruandese del 1994. Oggi, del resto, neppure quello che la pubblicista ancora chiama "l'impero americano" sembra più in grado di controllare i focolai di crisi e di conflitto attivi in molte zone del mondo».

Nella sensibilità collettiva stanno prevalendo la sfiducia e la rassegnazione? Magari, anche l'idea che sia meglio tenersi lontano dai guai, lasciando che siano i popoli in guerra a «sbrigarsela tra loro»?
«Il rischio di "abituarsi" a questo stato di cose sussiste. Gli scenari di guerra sono molti, le situazioni che alimentano i conflitti sembrano spesso indecifrabili, mentre sono pochi i soldi e le energie da investire in percorsi di pace. Recentemente, io mi sono fatto promotore di un appello per Aleppo (dove in questi giorni sono state rapite due attiviste italiane ndr). Questa città siriana, inclusa nel "patrimonio mondiale dell'umanità", da due anni è stretta nella morsa di un assedio: le conseguenze sono terribili, dal punto di vista della perdita di vite umane e dei danni ai complessi monumentali. Anche nel caso del conflitto in Siria, però, si ha l'impressione che l'opinione pubblica internazionale reagisca in modo blando». 

Come se fosse distratta?
«Oppure rassegnata all'attuale corso degli eventi. In ogni caso, è un errore: che ci piaccia o no, il processo della globalizzazione rende le diverse aree del pianeta sempre più interdipendenti tra loro. La guerra è un fenomeno contagioso: non possiamo illuderci che rimanga indefinitamente lontana da noi, senza crearci problemi».

Nel caso della Siria, quali vie si potrebbero imboccare per mettere fine al conflitto tra il governo e gli insorti di diverse fazioni, jihadisti e non?
«Laggiù la situazione è davvero complessa. Nel maggio scorso si è dimesso il rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, e ora, attentare di avviare delle trattative tra le parti, è il nostro connazionale Staffan de Mistura. Non possiamo 
che esprimergli i nostri più sinceri auguri. Io ritengo che un "cessate il fuoco" potrebbe incominciare proprio da Aleppo, sottraendo una parte del territorio siriano - seppure piccola - alla logica delle armi».

Attualmente si combatte anche in Europa, nell'Ucraina orientale.
«Mi sembra però che la situazione in Ucraina, rispetto a quella siriana, sia relativamente meno intricata: potrebbe evolvere positivamente in tempi non lunghi, se le trattative tra Kiev e Mosca procederanno su basi ragionevoli e con il sostegno di altri Stati, a partire dall'Unione europea».

Come già aveva fatto Giovanni Paolo Il nel 2003, nell'imminenza dell'invasione dell'Iraq, Jorge Mario Bergoglio ha perorato più volte la causa della pace in Iraq:«Per fare la pace - ha detto - occorre coraggio, molto di più che per fare la guerra». Nella nostra epoca, sono ancora i Papi a svolgere il ruolo di "difensori civici", a livello globale?
«Le parole e i gesti di Francesco, come quelli dei suoi predecessori, sono estremamente importanti e significativi. Però non possiamo delegare la questione della pace nel mondo al Papa, lasciandolo solo. I suoi appelli devono avere un seguito, nella diplomazia internazionale e nella coscienza di ognuno di noi». 


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