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29 Septiembre 2014

Noi Genitori & Figli. Verso il Sinodo/ 5-19 ottobre 2014

Bivio di civiltà

Sullo sfondo del Sinodo sulla famiglia, che prende il via domenica prossima 5 ottobre, una sfida drammatica: quella al virus dell'individualismo che rischia di distruggere "matrimoni, società, nazioni". Parte da questa premessa culturale l'arcivescovo Vincenzo Paglia, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, per riflettere sui compiti che attendono i padri sinodali

 
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 Di fronte a noi un nodo culturale drammatico, una scelta in qualche modo primordiale. Da una parte il dettato biblico che dice: «Non è bene che l'uomo sia solo». Dall'altro l'arroganza della cultura dominante che impone: «Da soli è meglio». E il virus mortale dell'individualismo, alimentato da una logica distorta del mercato, da certi media che rilanciano e amplificano atteggiamenti e modelli farneticanti, dalla tirannide della pubblicità più becera, che rischia di annientare le famiglie, le società, le nazioni. 
Così l'arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, tratteggia il quadro culturale al cui interno il Sinodo - che prende il via tra pochi giorni - sarà chiamato a riaffermare «la bellezza della famiglia che, attraverso la generazione dei figli, tiene letteralmente in vita la Chiesa e la società». Una riflessione approfondita e per certi versi sorprendente, anche attraverso i temi toccati dall'Instrumentum laboris, in cui Paglia spiega perché, alla luce delle indicazioni fornite dal Papa in questi mesi, i padri sinodali dovranno trovare la strada per conciliare verità e misericordia, cioè far dialogare il bimillenario patrimonio dottrinale della Chiesa con le mutate esigenze dei tempi. 
Caro arcivescovo, le migliaia e migliaia di risposte al questionario arrivate da tutto il mondo e sintetizzate nell'Instrumentum laboris fotografano in modo realistico e sistematico, senza toni allarmanti, ma anche senza edulcorare nulla, la situazione della famiglia nel mondo. Tra tanti problemi aperti, che poi vedremo nelle domande successive, esiste a suo parere anche una nota di speranza? 
L'idea di inviare alle conferenze episcopali del mondo, a singoli credenti, ma anche a non credenti, un questionario sui problemi della famiglia si è rivelata una decisione pastoralmente geniale. Mostra, tra l'altro, la chiara volontà di Papa Francesco di non impostare il Sinodo (o meglio le due sessioni del Sinodo) solo sul piano della teoria, ma di voler guardare dentro la realtà della vita delle nostre famiglie, sia di quelle cristiane che delle altre. Le risposte pervenute, che riguardano alcuni interrogativi e alcuni problemi che assillano la famiglia, sono state sintetizzate nell'Instrumentum laboris in maniera fedele e chiara. Non si deve tuttavia dimenticare che non tutte le questioni riguardanti la famiglia e il matrimonio sono state indicate nelle domande. Ci sono anche aspetti, rimasti fuori dalle domande e quindi non presenti nell'Instrumentum laboris, che dovranno comunque essere affrontati e dibattuti già da ora, ma soprattutto nel corso del Sinodo ordinario del 2015. 
A quali problemi pensa in particolare? 
Penso - per fare un solo esempio - alla grande questione delle adozioni, che non è affrontata nel presente testo. Ci sono però tanti altri tempi e altri problemi che forse non sarebbe stato possibile affrontare in sede preliminare, se non con una serie interminabile di domande. Tutto questo non inficia naturalmente il valore dell'Instrumentun laboris che rimane un documento di grande interesse. È una foto importante da guardare e da esaminare. Una dimensione che vorrei si sottolineasse maggiormente - e che emerge complessivamente dall'Instrumentum laboris - è la straordinaria testimonianza che un notevole numero di famiglie cristiane e non cristiane offre al mondo mostrando l'indispensabilità della famiglia. Si tratta di una realtà di cui la società, e anche certa politica, finge di dimenticarsi. Invece è proprio la bellezza della testimonianza di tante famiglie che mostra al mondo la forza dell'amore. Sono queste famiglie - che chiamiamo "normali" - che tengono letteralmente in vita la Chiesa e la società. Non dobbiamo dimenticarlo! Al contrario, è bene mostrare che è possibile, bello e indispensabile fare famiglia. Se pensiamo al nostro Paese, cosa ne sarebbe dei giovani, degli anziani, dei disoccupati, dei malati e dello stesso risparmio economico, se non ci fossero queste famiglie? Purtroppo queste famiglie non solo vengono dimenticate, ma spesso sono persino sfruttate e tartassate. 
In vari passaggi dell'Instrumentum si sottolinea la necessità di rivolgersi alle difficoltà delle famiglie con uno sguardo di rinnovata misericordia. Da più parti si pensa che questo invito preluda a nuove prassi pastorali. Sarà questo l'atteggiamento che prevarrà al Sinodo? 
E' nella logica dell'indizione del Sinodo che si vada in questa direzione. Il Papa in questi mesi non ha mancato di dare indicazioni chiare su ciò che il Sinodo dovrà affrontare e su come farlo. Mi pare che non si tratti di un Sinodo che deve semplicemente ribadire la dottrina su matrimonio, famiglia e vita - ovviamente indispensabile -, ma di un'assemblea che deve far dialogare questo patrimonio di sapienza con la situazione del mondo contemporaneo, certamente diverso dal 1980, quando fu celebrato il Sinodo sulla famiglia voluto da san Giovanni Paolo II. Il patrimonio di verità e misericordia che la Chiesa possiede deve incrociare la realtà delle famiglie di oggi. 
Accanto alle grandi riflessioni dovremo attenderci quindi che si arrivi alla concretezza delle buone pratiche? Certamente ai partecipanti al Sinodo verrà chiesto di non restare fermi in dibattiti teorici ma di uscire per incontrare, quasi in un ideale corpo a corpo, le famiglie reali. Il Sinodo, insomma, riprendendo le prime parole della Gaudium et spes, è chiamato a sentire sue le gioie e le angosce delle famiglie contemporanee. In questo senso, il rinnovamento dell'atteggiamento pastorale non vuol dire né annacquamento della dottrina né cedimento alla cultura mondana. Al contrario, vuol dire prendere sulle proprie spalle appunto le speranze e le ferite di tutte le famiglie, quelle più bisognose anzitutto. E dovremo farci domande precise. Cosa vuol dire fermarci e non passare oltre davanti ai drammi delle famiglie? Cosa vuol dire versare olio e  vino sulle loro ferite? Cosa significa portarle nell'albergo? E questo è chiesto a tutti, non solo agli esperti di pastorale familiare. In questo senso il Sinodo è un grande atto d'amore concreto, come quello del buon samaritano. Dobbiamo evitare il rischio di un astrattismo che fa passare oltre la dura e assieme affascinante realtà. 
Uno dei punti su cui le risposte delle Chiese locali insistono maggiormente è la difficoltà a far comprendere il messaggio della Chiesa su matrimonio e famiglia trasmesso attraverso i testi del magistero. Contenuti da rivedere o linguaggio da riadattare? 
È ovviamente una constatazione un po' amara che richiede però una più attenta consapevolezza e una adeguata strategia pastorale. In tal senso il Sinodo è una straordinaria opportunità. Naturalmente non si tratta di abbandonare la sapienza antica, bensì di trovare il modo per farla giungere sino al cuore dei fedeli. È la fatica che la Chiesa compie in ogni tornante della Storia. Di volta in volta le generazioni cristiane sono state chiamate a tradurre in gesti e in parole comprensibili agli uomini del proprio tempo la dottrina di sempre. Ovviamente tale processo non è scontato; richiede intelligenza e passione da parte di tutti. Ciascuno, nella Chiesa, è chiamato a compierlo secondo la propria vocazione. È questa l'affascinante e ardua fatica dell'evangelizzazione. La Chiesa non è un computer dove è sufficiente premere sempre lo stesso tasto per leggere la stessa pagina. E neppure si può fare "copia e incolla". È indispensabile la fatica di una intellegibile elaborazione per il proprio tempo. Tale crescita avviene legando assieme la parola di Dio e i segni dei tempi, ricchi del patrimonio di sapienza della tradizione. È stata la grande lezione del Vaticano II e il saggio atteggiamento pastorale degli ultimi papi, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Insomma, il prossimo Sinodo deve inserirsi in questa scia: un occhio alla sapienza sino ad ora raggiunta e un altro ai segni dei tempi per provocare una nuova sintesi.
Dalla maggior parte delle Chiese locali - secondo quanto emerso nell'Instrumentum - sembrano arrivare richieste di apertura a proposito delle convivenze e dei divorziati risposati. Il problema non appare tanto quello dell'accesso ai sacramenti che - si dice - è un'esigenza avvertita da una minoranza ristretta, ma la scelta di indifferenza che caratterizza tante coppie nei confronti di quanto la Chiesa propone. Un problema di evangelizzazione e, allo stesso tempo, un problema educativo. C'è spazio per far breccia in questa spessa coltre di laicismo che sembra tanto lontana dai valori evangelici? 
Il problema dei divorziati risposati c'è ed è stato rilevato anche nell'Instrumentum laboris. Non vorrei però che si focalizzasse solo su questo l'attenzione. Anche perché ci sono sul tavolo altri problemi gravissimi che vanno considerati e che spesso l'opinione pubblica mette da parte. Penso, ad esempio, all'abbandono degli anziani, all'infanzia trascurata, al distacco tra le generazioni, alla povertà, alla sfida educativa, e così oltre. Mi pare anche importante stabilire  una gerarchia tra i problemi. Quello dei divorziati risposati rimane certamente uno scoglio da affrontare. Ma non è né il primo e neppure il secondo . Non voglio tuttavia eludere la questione. Bisogna, in proposito, tener presenti due prospettive: deve innanzi tutto cambiare l'atteggiamento verso tali famiglie che hanno condizioni diverse l'una dall'altra. Il ogni caso non debbono più avere la sensazione di essere abbandonate dalla Chiesa, ossia  dall'intera comunità cristiana, clero e fedeli. Sino ad oggi l'atteggiamento  verso di loro è stato severo e poco misericordioso. C'è bisogno che queste famiglie sentano che sono amate, che fanno parte della vita della comunità. Per questo il primo "corpo di Cristo" di cui devono nutrirsi è il contatto fisico con la comunità stessa. Sarebbe farisaico, a mio avviso, affidare ad una disposizione canonica la soluzione dei drammi che vivono. È urgente intraprendere con loro la via di una fraternità effettiva e senza dubbio si arriverà anche a trovare nuove soluzioni pastorali. Ma lasciamo al Sinodo il dibattito su questi aspetti. 
Da più parti si è fatto notare come, alla radice della crisi che devasta le famiglie e che, in percentuali purtroppo crescenti, ne determina la disgregazione, ci siano soprattutto cause culturali. Cioè un radicale mutamento di prospettive esistenziali che azzera le speranze e impedisce alle persone di aprirsi al futuro. Qual è la sua opinione?
Certo, c'è da scendere ancora più in profondità per affrontare in maniera adeguata la crisi della famiglia, oggi. E credo sia da cogliere il punto cardine della crisi, che è eminentemente culturale e quindi anche spirituale. Mi riferisco a quel primato dell'Io che sta scalzando ogni gerarchia di valori. Giuseppe De Rita parla di una "egolatria", ossia di un vero e proprio culto dell'Io sul cui altare si sacrifica tutto, anche gli affetti familiari, il lavoro, la via spirituale. E così oltre. C'è come un impazzimento dell'individualismo. L'lo prevale su tutto, anche sulla famiglia, che viene piegata alla realizzazione di se stessi. Insomma, ci si sposa non tanto per costruire un "noi" comune, per realizzare un progetto di vita comune, ma per realizzare se stessi, il proprio "io". Lindividualismo contemporaneo è divenuto il virus che distrugge, a partire dal "noi" della famiglia, ogni "noi", ogni vita associata. Stiamo assistendo, purtroppo, ad una sorta di de-familiarizzazione della società. Sì, corriamo il rischio di polverizzare la società. E tale processo inizia dalla destrutturazione della famiglia. Fanno pensare i dati della ricerca di Volpi in Italia. Negli ultimi dieci anni sono diminuiti i matrimoni religiosi, i matrimoni civili, le convivenza stabili, e l'unica cosa che è aumentata sono le famiglie unipersonali, quelle cioè formate da una persona sola. Cosa vuol dire? Vuol dire che ogni legame che voglia essere stabile è troppo pesante, si preferisce stare soli. qui il cuore del problema. Insomma, ci troviamo di fronte, per la prima volta nella Storia, a un bivio di civiltà, a una scelta in qualche modo primordiale. Da una parte l'affermazione biblica: «Non è bene che l'uomo sia solo». Dall'altra la cultura maggioritaria: «È bene che ognuno sia per conto suo». È questa la terribile congiuntura che oggi deve essere affrontata. E non solo nel Sinodo. Se non poniamo una inversione di marcia davvero tutto diventa "liquido". È a dire che nessuno può fidarsi più di nessuno. Non c'è una roccia, un luogo saldo né a casa, né nella città, né nella nazione, né nella famiglia dei popoli. 

Ma chi alimenta questa cultura dell'individualismo? A chi interessa? Cui prodest? 
Inizio la risposta con le parole di un grande pensatore della latinità, proprio per dimostrare che questa centralità della famiglia non è un'invenzione cristiana ma appartiene da sempre alla sapienza del mondo. Cicerone diceva: familia est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Traduciamo: la famiglia è il principio della città e quasi una scuola di vita sociale, uno stato in miniatura. il demone dell'individualismo ha capito che la destrutturazione della società può avvenire solo distruggendo quel primo "noi" della società che è la famiglia. Distrutta la famiglia tutto diventa più semplice. Chi se ne avvantaggia? Se ne avvantaggia il capitalismo selvaggio, che ha bisogno di individui da conquistare - meglio, da schiavizzare - per accrescere i suoi profitti. La famiglia unita è un baluardo di sobrietà e di scelte oculate. Anzi, è la matrice per una società anche economicamente matura. L'individuo isolato è più facilmente manipolabile dal mercato e dalla sua avanguardia avanzata, che è la pubblicità. Ma qui il discorso si farebbe complesso. E' comunque la sfida radicale che non solo il Sinodo, ma a mio avviso la Chiesa contemporanea deve affrontare. 
Sempre a proposito di divorziati e risposati, l'Instrumentum si concentra anche sulla necessità - come emerso da tante risposte - di rivedere i criteri dei processi di nullità matrimoniale, concedendo per esempio ai vescovi locali la facoltà di esprimere giudizi definitivi senza ricorrere alla Rota romana. Può essere una strada percorribile o ritiene   che occorra intervenire in modo diverso?
Certamente è una strada percorribile e probabilmente renderebbe la procedura per dichiarare nullo un matrimonio più snella e veloce. Ovviamente si deve comprendere che, in nessun caso, si tratta di annullare un matrimonio, ma di riconoscere che quel matrimonio non c'è stato, per un vizio di consenso oppure per altri motivi previsti dal Codice di diritto canonico. Pensando, invece, a sveltire i processi di nullità così come previsti dal Codice, in molti pensano a togliere il secondo grado di giudizio come obbligatorio (mantenendo sempre la possibilità di appello per chi lo desidera), oppure a inserire più di un giudice laico nel turno giudicante. In ogni caso è decisivo che i fedeli siano avvertiti su tutto questo e che venga facilitato l'accesso alle cause di nullità matrimoniali. In Italia, ad esempio, la CEI dal 1999 consente di iniziare una causa di nullità pagando al Tribunale solo un rimborso spese e in questa somma, per chi lo desidera, è compresa l'assistenza di un patrono stabile. 
Scorrendo la sintesi delle risposte si coglie una netta chiusura per quanto riguarda l'ipotesi di "matrimonio" omosessuale, mentre si chiede accoglienza su un piano di pari dignità per i bambini nati o affidati a coppie gay. Ma occorrerà davvero una buona dose di fantasia pastorale per avviare un percorso di iniziazione cristiana con bambini le cui famiglie non condividono nei fatti un percorso di fede... Come trovare questa conciliazione? 
La domanda pone diverse questioni. Inizio dicendo che è ovvio che non si può parlare di matrimonio omosessuale. Da che mondo è mondo, il matrimonio è sempre tra uomo e donna, in tutte le culture e  in tutte le religioni di tutti í tempi. Laddove non c'è capacità generativa non  si può parlare di matrimonio, vero che oggi - in un contesto di destrutturazione del matrimonio - tutto si ritiene possibile. Ma è un impazzimento che avrà termine. Altra cosa, invece, che si possano avere "convivenze non familiari" che definiscono situazioni di tutt'altra natura. Per esempio, se tre anziani decidono di vivere insieme, perché non permetterlo? E se questo accadesse, non sarà necessario immaginare qualche prospettiva giuridica, che però non ha nulla a che vedere con l'istituto matrimoniale? È di competenza della società civile studiare e prendere decisioni in materia. Mi pare poi che non ci sia problema su questioni di ordine patrimoniale, peraltro già previste nella legislazione civile. 
E per tornare alla questione dei bambini che vivono con adulti omosessuali? 
Qui siamo in un territorio diverso. Non mi addentro su un discorso più ampio. Mi pare ragionevole la posizione di tanti studiosi che ritengono indispensabile per una adeguata educazione dei bambini la presenza di un uomo e di una donna. Ovviamente non vuol dire che non ci possano essere eccezioni. Ma sarebbe un problema fare delle eccezioni la regola. Qui comunque il discorso sarebbe lungo. Ma va ribadito che la Chiesa da sempre ha accolto e salvato i bambini. Quando la società li eliminava, la Chiesa ha inventato anche le "ruote" per accoglierli. E non ha mai fatto distinzione alcuna tra sani e malati, tra ricchi e poveri. Su questo rivendico un primato di esemplarità: sulla pari dignità dei bambini la Chiesa è intransigente. E per la Chiesa - ovviamente ci sono anche peccatori tra i suoi membri - i bambini hanno una loro propria dignità, non possono mai essere considerati una "proprietà privata" neppure dei genitori. Il legame di affetto, che naturalmente è fondamentale e inalienabile, dev'essere indirizzato a promuovere la  crescita personale dei bambini e a valorizzarne la personalità. Purtroppo il virus dell'individualismo colpisce anche qui: il "figlio ad ogni costo" è il risultato di una mentalità distorta  che porta a considerare il diritto al figlio una dimensione inalienabile. È facile il rischio che si trasformi il desiderio dei figli ín diritto al figlio. La differenza è grande. L'ossessione al diritto al figlio provoca una nuova forma di schiavitù. Basti vedere la degenerazione rappresentata dalla pratica dell'utero in affitto o anche la corsa alla  fecondazione in qualsiasi modo. E questo mentre assistiamo alla contraddizione di una denatalità drammatica. A me preoccupa il fatto che, come attestano le statistiche,  la fecondazione assistita abbia fatto crollare le richieste di adozione del 30 per cento. Qui siamo dí  fronte a un indurimento della coscienza che non permette di guardare all'adozione come a una dimensione profondamente umanistica e cristiana. Per i cristiani la salvezza consiste nell'essere "adottati da Dio".  
Non la colpisce che tante risposte segnalino una "diffusa inadeguatezza degli attuali cammini formativi matrimoniali"? Se ne parla da tanti anni, ma ancora la formula davvero capace di far breccia nella diffusa mentalità laicista sembra difficile da trovare... 
Qui torniamo alla radice della crisi che traversa la famiglia oggi. E la crisi è fondamentalmente culturale. Il virus dell'individualismo, accompagnato alla crisi anche economica, non solo sta spostando sempre più in avanti negli anni la formazione di una famiglia, ma ne sta cambiando il senso. Il matrimonio - come dicevo prima - più che una costruzione di un futuro comune è la realizzazione di se stessi. È a dire che solo dopo aver risolto i propri problemi allora ci si sposa. Sembra venir meno il desiderio di crescere insieme e, in questo modo, di costruire un futuro migliore per sé, per la propria famiglia e per la società. Ci si fidanza più tardi e cí si sposa ancora dopo. Le conseguenze sono ovvie. Per di più, è convinzione sempre più comune che sia impossibile il "per sempre". È facile che si dica "for ever" per la propria squadra di calcio, ma è difficile dirlo per la propria moglie o per il proprio marito. Evidentemente qualcosa non funziona! E' comunque evidente che si debba recuperare non solo una maggiore incisività dei corsi di preparazione al matrimonio, ma anche recuperare quel senso del "noi" al cui interno si forma la coppia e che poi  dà senso alla famiglia. I corsi in preparazione al matrimonio debbono trasformarsi in realtà in corsi di reinserimento nella comunità cristiana per comprendere quel "Noi" ecclesiale al cui interno si comprende  anche il "noi" domestico. Dobbiamo recuperare il senso della scelta del matrimonio come una scelta che  sta all'interno del sogno di Dio sul mondo: più giusto, più solidale, più fraterno. Ci si sposa per aiutare, attraverso il matrimonio e la famiglia che ne scaturisce, per essere partecipi della costruzione di un mondo  secondo l'amore di Dio. Non è un compito facile,  ma dobbiamo riuscirci. Ecco perché è urgente rifondare una pastorale più ampia, fondata su una riflessione più robusta e su una domanda più radicale. Il passaggio è stretto, ma provarci è indispensabile. 
Su questo Sinodo straordinario, e poi sull'appuntamento ordinario del 2015, le aspettative sono tante. Leí cosi si attende in realtà? Riusciremo davvero a trasformare la pastorale familiare in quell'ospedale da campo che Papa Francesco ci ha indicato? 
Mi auguro davvero una nuova primavera delle famiglie cristiane. Ma questa è possibile se c'è una primavera della Chiesa. In tal senso è vero che bisogna rinverdire la pastorale familiare, ma forse è ancor più urgente rendere a misura di famiglia  l'intera pastorale. 
Infatti si è spesso ripetuto che la famiglia non è semplicemente un settore pastorale, ma è la dimensione stessa della pastorale, l'asse portante attorno a cui deve ruotare la vita della Chiesa. E questo il suo auspicio? 
Certo, parrocchie, movimenti, associazioni debbono ridare vita a un circolo virtuoso capace, a sua volta, di sprigionare nuove vocazioni al matrimonio, aiutando le famiglie a liberare nuove energie. C'è bisogno di una Chiesa più familiare, più vicina ai bisogni concreti delle persone, per avere più famiglie ecclesiali. Immagino un'ellisse con due poli: chiesa-comunità e chiesa-domestica in un rapporto più stretto, quindi più virtuoso e più produttivo. Se «non è bene che l'uomo sia solo», è altrettanto vero che «non è bene che la famiglia sia sola». 
Quando questa rivista andrà in edicola e arriverà agli abbonati, domenica 28 settembre, il Papa incontrerà in San Pietro decine di migliaia di anziani per una giornata che anticipa idealmente l'inizio del sinodo. Perché papa Francesco ha voluto avviare la riflessione sulla famiglia partendo dalle generazioni con i capelli grigi? 
In un mondo sempre piu frammentario, dove persone e categorie ai margini sono sempre píù numerose, la famiglia deve compiere la fatica di unire, di ricomporre, di abbracciare tutte le generazioni. Ecco perché Papa Francesco vuole incontrare anziani e nonni. Non è concepibile una famiglia che scarta questi fratelli e sorelle che hanno vissuto così a lungo. Grazie a Dio si sono allungati gli anni. Ma spesso non vi è un pensiero, una visione su questi decenni in più di vita. Talora la stessa comunità cristiana non ha parole sugli anziani. Il Papa stigmatizza la cultura dello scarto. Chiede alle famiglie cristiane di imboccare, e in fretta, un'altra strada. I nonni sono un valore che famiglia e società non possono permettersi di lasciare ai margini: non è utile, e soprattutto non è giusto. Con l'iniziativa di questa domenica vogliamo proprio riaffermare la centralità delle generazioni più esperte nelle nostre famiglie. Dovremmo essere almeno in centomila in San Pietro, età media 70 anni. Quanto fa il totale? Sette milioni di anni. Come è possibile scartare sette milioni di anni di sapienza? 


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