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31 Enero 2015

Calais, le violenze della polizia francese sui profughi che sognano l'Inghilterra

Human Rights Watch presenta un rapporto sulle aggressioni degli agenti nel porto francese nei confronti dei profughi che attendono di entrare illegalmente in Gran Bretagna. Gli accampati in città secondo l'Unhcr sono 2300, per strada, nel bosco, in tende o fabbriche abbandonate. Quindici i morti nel 2014. Per chi resta, il problema è l'acqua, la fame, l'igiene

 
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MILANO - Il 14 novembre scorso, i poliziotti francesi hanno trovata Rosa, una ragazza eritrea di 25 anni, nascosta in un tir al porto di Calais. Sperava di riuscire così a sbarcare a Dover, in Inghilterra: "Mi hanno picchiato - dice invece - e mi sono accasciata davanti al camion". La ragazza ha raccontato di aver perso conoscenza e di essersi risvegliata in ospedale, dove poi ha incontrato i ricercatori di Human Rights Watch (Hwr); era stata operata alla gamba e doveva rimanerci ancora sei settimane. Salamou, anche lui in fuga dall'Eritrea, non ha una storia molto diversa: "La sera del 25 novembre stavo camminando - racconta - quando tre poliziotti sono usciti dalla loro camionetta e mi hanno picchiato con pugni e armi". 
I manganellati e i respinti. A Calais, Human Rights Watch ha raccolto numerose denunce come quelle di Rosa e Salamou, in un report che denuncia le violenze della polizia, che però a sua volta smentisce assieme al Ministro dell'Interno. Quello che è innegabile è la militarizzazione della città francese, come risposta all'aumento degli arrivi: secondo il prefetto Denis Robin, ora i profughi sono 2300, comprese varie donne e alcuni minori.
La tappa a Milano. Molti di loro sono sbarcati in Italia, hanno fatto tappa a Milano (dei 70mila siriani e eritrei in transito negli ultimi 15 mesi nei dormitori del capoluogo lombardo, meno di 100 hanno fatto domanda di asilo per restare in Italia), ora sono a Calais progettando di passare la Manica. Per molti il nemico del sogno inglese si chiama Accordo di Dublino: è la regola dell'Ue per cui si può fare domanda solo nel primo paese europeo in cui si viene fotosegnalati. Chi tra di loro ha già avuto le impronte digitali scannerizzate in Italia o Oltralpe, se anche raggiungerà la Gran Bretagna, sarà rimandato indietro. Nel frattempo, in Francia è crisi per i richiedenti asilo: solo un terzo è ospitato nei centri d'accoglienza, 15mila sono in lista d'attesa e si aspetta in media un anno. 
I morti di una frontiera interna europea. C'è a chi è andata peggio rispetto ai manganellati denunciati da Human Rights Watch e ai respinti dalle leggi europee. Sono i caduti di questa frontiera interna dell'Ue: per le associazioni locali, quattordici nel solo 2014. Come il trentenne sudanese Mohammad Ali Douda, in fuga dalle violenze del Darfur, che il 24 ottobre è morto saltando dall'alto di un ponte su un camion coperto; nel tentativo di entrarci tagliando il telone, è scivolato a terra. O come Nitsuh, sedicenne etiope che si faceva chiamare Sara e tre giorni prima era morta investita da un auto mentre attraversava l'autostrada A16 all'altezza di Marck, vicino Calais, per cercare un camion. Il giorno della sua morte è stato particolarmente concitato al porto: oltre 300 disperati avevano tentato di assaltare i tir in fila per imbarcarsi sui traghetti per Dover, spingendo la polizia ad usare i gas lacrimogeni per disperderli. 
La denuncia dell'Unhcr. Per chi resta a Calais, la vita è dura. Nel 2002 chiuse i battenti il centro della Croce Rossa a Sangatte; aveva 700 posti di accoglienza, che potevano diventare 2000 per le emergenze, ma secondo Francia e Inghilterra era un fattore d'attrazione dei migranti. A 13 anni di distanza, da questo punto di vista la sua chiusura non è servita a niente. I profughi ci sono sempre stati e dall'estate scorsa, a seguito della guerra in Siria e delle crisi in Sudan ed Eritrea, il numero è risalito fino agli attuali 2300. Ora vivono in quattro accampamenti di fortuna, oppure dormono per strada. "Le condizioni sono totalmente inaccettabili per gli standard di una società democratica", dice Vincent Cochetel, direttore dell'Unhcr in Europa. "Siamo testimoni di una situazione vergognosa nel cuore dell'Ue".
Tra profughi spellati e file per un pasto. Tra le 800 e le 900 persone sono accampate in due spiazzi chiamati "la jungle". Uno è un'industria chimica abbandonata con tende e materassi all'aria aperta, mentre l'altro si estende nel bosco vicino, dove ci sono almeno 200 tra bambini e donne. L'ong Auberge des migrants fornisce 600 pasti al giorno, ma per tutti non bastano e la coda inizia alle 14.30 per la distribuzione delle 16. Fogne e bagni non esistono, in alcuni punti bisogna addirittura percorrere due chilometri per prendere l'acqua. "Qualcuno  -  spiega Mariam Guerey di Secours Catholique -  si lava vicino alla fabbrica Tioxide perché lì l'acqua è riscaldata dagli scarichi industriali, ma è tossica e molti profughi sono per questo tutti spellati". La sua associazione aveva sette docce, che il 29 settembre sono state bruciate da un cittadino di Calais infastidito dall'aiuto ai profughi.


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