| 26 Junio 2015 |
Rom, le storie dell'integrazione |
Grazie all'aiuto dei volontari di Sant'Egidio, le 42 famiglie rom sgomberate dal campo di Rubattino nel 2009 hanno potuto avviare percorsi di autonomia. Le vicende di Flora, Cristina, Larissa, Marius, Georgel, dimostrano che, pur con molta fatica, sono possibili le alternative alle ruspe. Se c'è la volontà politica di attivarle. |
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«Prego perché non vi manchi mai la salute, il pane quotidiano e l'amore del prossimo»: è la voce, a tratti rotta dall'emozione, di Flora, madre di cinque figli che rivolge il suo saluto a tanti amici rom e non rom. Dette da qualsiasi altra persona rischierebbero di sfiorare la banalità e la retorica, ma pronunciate da Flora rappresentano la vera collocazione delle priorità di una vita faticosa, vissuta con marito e figli prima nell'insediamento abusivo di via Rubattino, po - dopo lo sgombero - in strada e oggi in una casa, grazie al percorso di autonomia, completamente autofinanziato e portato avanti grazie alla regia della Comunità di Sant'Egidio.
Esperienze come quella di Flora che hanno riguardato altre 42 famiglie rom romene a Milano e dintorni, sono state al centro di una serata, promossa dalla Comunità di Sant'Egidio a Milano, con la collaborazione di operatori, madri, padri, insegnanti e ragazzi, uniti da un passato comune: l'esperienza del campo abusivo di Rubattino, quello sgomberato all'alba del 19 novembre 2009.
È stato un modo per riflettere insieme su un'alternativa agli sgomberi, che «se vogliamo - spiega Stefano Pasta della Comunità di Sant'Egidio - è possibile», ma anche una serata nella quale per una volta si è deciso di lasciar parlare i rom stessi (e non gli esperti di intercultura e via dicendo) delle proprie aspettative, delle proprie esigenze, di tutto quello che significa per loro casa, lavoro e istruzione. Cristina sta studiando per diventare parrucchiera ed è felice al pensiero del suo futuro lavoro, ma anche Larissa racconta semplicemente che vorrebbe farsi una vita come tutti gli italiani. E poi c'è Marius, che quando arrivò a Milano a 14 anni era analfabeta e, non potendo frequentare la scuola dell'obbligo, tutti i giorni da Pavia raggiungeva il circolo Acli di Lambrate, dove cinque volontari italiani si sono alternati per mesi nel dargli lezioni di italiano. Oggi Marius ha la licenza media.
E poi c'è la storia di Anna, italiana di 84 anni, vicina di casa della famiglia rom di Georgel, con cui prima ha condiviso le serate sul divano a guardare la tivù e poi una volta sfrattata da casa sua è diventata ospite, nonna adottiva a casa dei vicini rom. «Quando è morto suo figlio - ha raccontato il dodicenne Georgel -, Anna ha perso la casa perché non aveva pagato l'affitto. Noi allora abbiamo deciso di non lasciarla sola. L'abbiamo invitata in casa nostra e le abbiamo offerto un letto in cui dormire. A volte è stato un po' difficile aiutare la signora Anna, ma poi ci siamo abituati a lei, e lei a noi, e infatti lei a volte ci ha fatto dei regali per dire che siamo come i suoi nipoti». Una convivenza che è durata, alla fine, 9 mesi, fino a quando non è stato trovato un minuscolo appartamento per Anna al piano di sotto della stessa palazzina.
Chi lavora e conosce a fondo tante famiglie rom sa che questi piccoli successi nascondono anni di fatica, che lavoro molto spesso significa lavori precari, che scuola significa costruirsi gli strumenti della conoscenza e relazioni con insegnanti, con altri genitori, ma a volte anche sentirsi rifiutati e discriminati.
Ciò nonostante questo lavoro, svolto sotto la regia di Sant'Egidio, che ha visto attivarsi una serie di associzioni e cittadini a supporto di queste 42 famiglie rom, non solo dimostra che le alternative alle ruspe ci sono, ma anche che un modello di percorsi di autonomia che riguarda le persone rom è già stato attivato e può essere replicato, se c'è la volontà politica di farlo.
Ilaria Solaini
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