«Ho visto confusione e sono entrata. Veramente mi sembrava un matrimonio, ma quando sono arrivata il cuore mi si è stretto. Per sfuggire al peggio vanno incontro alla morte, che Dio li abbia in gloria». La signora Pina Virgillito piange con le borse della spesa in mano. E' una delle poche catanesi che si fermano davanti alle bare dei tredici migranti senza nome.
La pescheria urla a due passi dal silenzio, nella corte di Palazzo dei Chierici dove le autorità si inchinano davanti a quei gusci di legno con sopra gli stessi fiori per tutti. Tutti e tredici, gli unici cadaveri senza nome tra i 28 recuperati dal naufragio più drammatico (finora) nel Canale di Sicilia, corpi che nessuno reclamerà mai. L'unico codice identificativo della loro esistenza è quello del dna inciso sulla targhetta d'ottone sulle bare. Per il resto, la morte accomuna tredici ragazzi di colore, maschi, tra i 22 e i 30 anni, che tutto pensavano, per il loro futuro, di ritrovarsi qui, a Catania, dentro una bara, ripresi da telecamere e obiettivi, omaggiati da capi laici e religiosi, pianti per lo spazio di un minuto, quello segnato dalle note del silenzio suonate da un ragazzo della loro età, Antonino Ingrassia. Solo che Antonino, componente della banda musicale di Misterbianco è nato dalla parte giusta (?) della sponda del Mediterraneo, quella che fa parte geograficamente dell'Europa, ma non lo è. Nel bene e nel male. Nè quando si tratta di confrontarsi con la qualità della vita degli altri Paesi, da noi di livello infinitamente più basso, né quando ci facciamo carico senza pensarci due volte dei drammi di coloro che fuggono dagli inferni del mondo, appellandoci solo a quel senso d'umanità mai, fortunatamente, perduto.
Di due sponde parla il responsabile della Comunità di S. Egidio, Emiliano Abramo. «La sponda Nord, la nostra - descrive - distratta dalle vacanze estive in un tempo di crisi dell'Europa, della politica e dell'economia e la sponda Sud anch'essa con la gente accalcata sulle spiagge, magari a Tripoli, con una domanda di quella stessa Europa che noi, oggi, non riusciamo a comprendere. Una domanda forte, al punto da motivare tanti ad affrontare un viaggio della speranza. Ma non si può morire di speranza, non è giusto. E' scritto anche sulla stele che ricorda il primo tragico sbarco a Catania di questa nuova stagione, quello del 10 agosto 2013 dove persero la vita 6 giovani egiziani».
«Ogni volta pensiamo che sia l'ultima volta, ma purtroppo non credo che sarà così - dice il vicepresidente della Comunità islamica di Sicilia, Ismail Bouchnafa - Oggi diamo un minimo di ciò che non siamo riusciti a dare loro da vivi. Oggi è come se, in ognuna di queste bare, ci fosse un fratello, un parente, uno di famiglia».
Con la comunità islamica, il rappresentante della chiesa Copta d'Egitto, Abona Bola, l'arcivescovo di Catania Salvatore Gristina e quello di Ragusa, Paolo Urso «Ogni persona - ricorda Gristina - ha diritto al rispetto, alla venerazione, a quella attenzione che unisce chi riceve la solidarietà e chi la dà» e ricorda il primo viaggio del Papa a Lampedusa «non a caso».
«Per questi ragazzi si realizza un sogno - commenta amaramente il sindaco Bianco - anche se si realizza in condizioni completamente diverse da quelle che immaginavano» e ringrazia la città, tutta, «che ha saputo esprimere generosità, umanità, solidarietà, nel lavoro dei tantissimi volontari che hanno voluto prestare la loro attività». I volontari, almeno i loro rappresentanti, sono tutti lì. Qualcuno ci tiene a fare passerella e chiede insistentemente che uno dei tredici mazzi di fiori da deporre sulle bare sia portato da "uno dei suoi", a beneficio delle telecamere. Ma tant'è.
Alcuni turisti entrano incuriositi e si fermano sulla soglia, non si accorgono nemmeno delle bare deposte in fondo al cortile, ma basta solo la "muraglia" di divise, grisaglie, tailleur e abiti talari per fare loro girare i tacchi.
Dopo il Padre nostro, l'invocazione ad Allah compassionevole e misericordioso, la preghiera copta, l'omaggio davanti alla bare. Poi, la folla si sgrana alla spicciolata. Le impiegate del Comune che hanno seguito la cerimonia al primo piano di Palazzo dei Chierici, tornano alle loro scrivanie. Le bare restano da sole. I furgoni delle pompe funebri D'Emanuele (l'azienda confiscata alla mafia e oggi in amministrazione controllata) entrano per caricarle. Il suono delle campane di mezzogiorno, in piazza Duomo, accoglie i furgoni con le tredici bare. Non sono campane a morto e sembra quasi paradossale. Ma è forse l'ultimo, piccolo saluto gioioso per questi ragazzi, morti di speranza in un'Europa che dice di avere ancora un'anima.
Carmen Greco
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