| 22 Octubre 2015 |
La lettera dei detenuti |
Babyboss, appello dal carcere «Crediamo in una vita diversa» |
Il papà in cella: «Sono stanco di soffrire». E i ragazzi applaudono |
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Trenta giovani detenuti ad ascoltare la lettura dell'appello scritto da alcuni carcerati della Casa Circondariale «Giuseppe Salvia Poggioreale» ai baby-boss. Trenta volti acerbi che sembrano adolescenti appena usciti da una scuola ma che in realtà provengono dal padiglione Firenze, dove viene recluso chi è finito in carcere per la prima volta. Un incontro a più voci arricchito dalla testimonianza toccante di Francisco, un giovane salvadoregno della Comunità di Sant'Egidio che ha visto il suo migliore amico ucciso dalle «maras», vere e proprie mafie giovanili che seminano terrore e morte in tutto il Paese. Sono curiosi e guardinghi allo stesso tempo, hanno scelto loro di partecipare a questo singolare dibattito che si è tenuto nella scuola del carcere alla presenza del direttore Antonio Fullone, del presidente del Tribunale di Sorveglianza Carminantonio Esposito, degli educatori, i volontari e alcuni agenti della polizia penitenziaria con il comandante Diglio.
Un incontro voluto per riflettere sulla violenza che sta dilagando a Napoli. Il carcere e il mondo del volontariato si interrogano sulle possibili risposte da dare.
Comincia Francisco, che racconta della violenza diffusa che si respira in El Salvador. Della guerra civile durata 12 anni che ha lasciato un paese ferito e povero con una grande sete di vendetta e di violenza. In questo clima sono cresciute le «maras», bande di giovani marginali e sbandati. Un tatuaggio distintivo caratterizza l'appartenenza ad una determinato clan. E poi un'iniziazione spesso crudele: per essere ammessi nella «mara» bisogna aver ucciso una persona, per dare prova del proprio coraggio. Alcuni si fanno tatuare una lacrima per ogni persona che uccidono, così sul volto di questi ragazzi si può contare il numero delle loro vittime. I detenuti ascoltano con attenzione, ma il clima si fa serio quando Francisco racconta della morte di William, il suo carissimo amico ammazzato all'età di 21 anni perché era diventato un grande amico e una grande speranza per molti bambini. Le maras volevano zittirlo, per loro era un esempio «diverso» che gli sottraeva una facile manovalanza.
Quindi è la volta di uno dei detenuti che ha scritto la lettera ai giovani boss. Una lunga condanna da scontare, 41 anni e 2 figli, spiega le motivazioni che lo hanno indotto a mettersi in gioco. «Sono stanco di soffrire, - dice serio e determinato - e alla mia età voglio ancora credere di poter vivere una vita diversa». Si rivolge ai ragazzi con una impensabile paternità e legge con convinzione il testo, accollandosi le sue responsabilità e parlando del fallimento della sua scelta che lo ha portato in carcere «dove l'anima si spegne giorno dopo giorno o peggio nella morte». Un fragoroso applauso conclude il suo intervento, sembra che il pubblico abbia apprezzato.
Nel frattempo arriva ancora una lettera da un altro padiglione. «Dovete sapere che una volta dentro è difficile uscirne, ve lo dico per esperienza personale». Poi il racconto diventa drammatico. «Volevo smetterla con questa vita, ma un giorno vennero a bussare alla mia porta e mi costrinsero a fare un grave reato contro la mia volontà. E oggi mi trovo in carcere a scontare 30 anni di reclusione».
Il dibattito è il momento più difficile. Molte le domande rivolte a Francisco. «Quando tornerai in El Salvador cosa dirai ai ragazzi? Continuerai a cercare di salvare i giovani come ha fatto William? Non hai paura?» E ancora: «La realtà è diversa, è difficile non pensi che il tuo possa essere solo un sogno?». C'è curiosità ma anche empatia con il ragazzo salvadoregno.
Quando si tratta di parlare della violenza di Napoli, e poi in fondo di se stessi, il discorso diventa più sfuggente. Si scivola nel vittimismo, nei luoghi comuni. «Una volta che uscirò chi darà lavoro a me che sono un pregiudicato? Come farò a campare con i pochi soldi che offrono e per di più al nero?». Alcune verità che diventano alibi per non cambiare. Ma sono incontri come questo che possono aprire spiragli sul futuro di tanti giovani. La strada del cambiamento richiede testimoni appassionati e convincenti che sappiano scalfire rassegnazione e violenza. Una strada tutta in salita dove ognuno può tendere una mano per suscitare voglia di riscatto.
Antonio Mattone
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