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9 Febrero 2012

I rom, nomadi per forza

 
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L’incendio del campo rom di Viale Umberto Maddalena (che poi non era un campo, ma il dismesso stabilimento della Coca-Cola) ripropone il problema dei campi rom, di questa vergogna tutta italiana di una piccola popolazione tenuta da decenni in condizioni disumane. Sono circa 60/70mila i rom nei campi in tutta Italia.
I campi nascono dall’equivoco, storico per più versi, che i rom siano nomadi. Cioè che non abbiano, e soprattutto non vogliano, una dimora stabile. Forse anche nell’intenzione di rispettare le loro tradizioni, in anni ormai lontani, passò l’idea di istituzionalizzare gli accampamenti di fortuna dei rom, che la soluzione potesse essere dotarli di un minimo di servizi e poi disinteressarsi del loro destino. Ecco i “campi sosta” previsti in legislazioni regionali, più o meno avanzate. Ecco i campi allestiti da amministrazioni locali. E insieme quelli più o meno autorizzati, accettati, tollerati, sopportati. Insomma una soluzione che non è una soluzione. Il provvisorio che diventa permanente.
Il fatto è che i rom non sono nomadi. Alcuni mestieri tradizionali (come l’artigianato o il commercio) prevedevano, certo, spostamenti periodici in aree geografiche limitate. Ancora oggi viaggiano i giostrai o i circensi. Ma di nomadismo non si può parlare. Per lo più i rom vengono in Italia, come tutti gli altri immigrati, alla ricerca di opportunità e di prospettive. Chi con cadenza “stagionale” (e non è l’unico caso tra gli immigrati), chi con l’aspirazione di stabilirsi nel nostro paese.
Certo, i rom hanno il loro stile di vita. In genere è tutto il nucleo familiare a muoversi. O gruppi di famiglie. Nella loro “tradizione” ha un ruolo il manghèl, l’elemosina. E si potrebbe continuare. Insomma, li caratterizza una certa adattabilità e intraprendenza, per cui anche in mancanza di tutto costituiscono in aree marginali piccoli insediamenti, che tendono alla stabilità.
Sono “nomadi”, sì, ma per forza. Loro malgrado. Perché, per motivi sulla cui validità qui non voglio discutere, vengono spesso sgombrati da quelle aree marginali, attraverso la distruzione degli insediamenti. Più spesso ad opera delle istituzioni. Da un po’ di tempo però si è diffuso il fenomeno di distruzioni operate dalla popolazione locale. Con motivi spesso pretestuosi.
Quella dei campi poteva essere solo una soluzione provvisoria, così come si alloggia in un campo di tende una popolazione che ha subito un terremoto. Nessuno penserebbe di lasciarcela per sempre. Invece i campi sono diventati permanenti. E il campo sembra l’unica soluzione possibile. Anche per quel presupposto (fasullo) di cui dicevo. In ogni caso, in Italia oggi non c’è alternativa.
I pochi campi autorizzati e almeno teoricamente attrezzati – per non dispiacere a nessuno – dovevano sorgere il più lontano possibile, in aree il più possibile insignificanti o remote, finendo però per insistere sui quartieri popolari e periferici delle città. I campi erano già troppo grandi per come sono stati pensati: centinaia, migliaia di rom in un solo campo sono troppi. Ma si sono anche ingrossati, attirando quelli che non trovavano pace per gli sgomberi. Attirando anche immigrati di nazionalità diverse e perfino italiani in difficoltà. Come è avvenuto a Viale Maddalena, che pure era solo un “campo” tollerato, e men che meno attrezzato.
La pericolosità dei campi è resa evidente da incidenti come questo, per fortuna senza vittime. L’impatto sociale e ambientale è altrettanto evidente. Esso cresce a dismisura in assenza di prospettive di integrazione. Il fatto, allora, pone ancora una volta il problema serissimo del superamento di questa fase dei campi come risposta alla presenza dei rom in Italia, attraverso interventi di integrazione, scolarizzazione di massa, politiche abitative e lavorative.
Questo per tacere tutti gli aspetti legati alla dignità della persona e ai suoi diritti. Perché i rom, con tutti i loro difetti, sono persone.


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