Non solo sovraffollamento. C’è un’altra emergenza che colpisce chi è rinchiuso nelle carceri italiane. E’ la salute. Spesso i detenuti vengono lasciati senza cure, nonostante molti di essi siano seriamente malati. I grandi centri clinici e le infermerie delle carceri somigliano sempre più a cronicari di vecchia memoria piuttosto che a luoghi di cura e riabilitazione. Ospitano detenuti non autosufficienti, amputati, handicappati, insieme a cardiopatici gravi, persone in dialisi e malati con carcinomi bisognosi di terapie specialistiche.
C’è una leggenda che corre tra i padiglioni del carcere di Poggioreale (e come ogni leggenda contiene sempre qualche frammento di verità): di fronte ad ogni malessere o sintomo di dolore viene spesso somministrata la stessa medicina, che tutti chiamano “padreppio” . Un antinfiammatorio a cui si attribuiscono i poteri taumaturgici del Santo di Pietralcina, e che va bene per tutte le necessità.
Ma al di là di quella che può essere una diceria resta il problema della grande domanda di salute che sale dalle oscure mura delle patrie galere.
Con la riforma del 2008 che trasferiva le competenze della Sanità penitenziaria dal ministero di Giustizia alle ASL, viene realizzato il principio previsto dalla Costituzione italiana che garantisce a tutti i cittadini pari diritto alla salute, almeno sulla carta. Tanto resta da fare e molti sono i problemi da affrontare e superare. Ma una cosa è certa: indietro non si torna. Attrezzature e macchinari obsoleti e privi di un minimo livello di sicurezza, ambienti non a norma caratterizzavano la Sanità penitenziaria prima dell’avvento della riforma. I medici dipendevano direttamente dal ministero della Giustizia, e a volte riuscivano ad ottenere una quantità di incarichi tale da dover essere in servizio contemporaneamente in più Istituti. Forse anch’essi devoti di Padre Pio a cui evidentemente avevano chiesto il dono dell’ubiquità. Una situazione al limite della legalità. La recente vicenda giudiziaria del dottor Belmonte, che per 18 anni è stato il direttore sanitario del carcere di Poggioreale, genera un senso di inquietudine sulla gestione dell’assistenza sanitaria del carcere napoletano di quegli anni.
Oggi c’è il rischio che la Riforma non riesca ad incidere come dovrebbe. Molte restano ancora le criticità. Nelle carceri della Campania la disparità di trattamento a seconda della ASL di appartenenza rappresenta il primo problema. Le prestazioni sanitarie erogate dall’ASL NAl, a cui fa riferimento quasi la metà dei detenuti della regione, sono quelle più carenti. I medici incaricati nei penitenziari napoletani sono in numero insufficiente e spesso non prestano il loro servizio in modo continuativo. Si assiste così ad un continuo turn over che penalizza il rapporto di conoscenza e di fiducia con i pazienti detenuti e che può prevenire gli atti autolesionistici e i suicidi. Allo stesso modo gli infermieri, alcuni dei quali appartengono a cooperative, cambiano in continuazione, e devono imparare daccapo l’approccio alla realtà penitenziaria. Anche le ore per gli psicologi sono minime. Per il 2012 nel carcere di Poggioreale ne sono previste solo 1800, il che significa che ogni detenuto può usufruire in media di 13 minuti di supporto psicologico ogni anno.
Con la Riforma del 2008 è la persona e non più il carcerato al centro degli interventi sanitari. Alla ”medicina di attesa” per cui si interviene solo su richiesta del detenuto e alla “medicina difensiva” che moltiplica le richieste di visite esterne e i ricoveri di urgenza per evitare qualsiasi possibile responsabilità, deve subentrare la “medicina di presa in carico”. Cioè bisogna prendersi cura di tutti i carcerati e avere particolare attenzione alle situazioni più critiche e preoccupanti. Ci sono poi le lunghe attese per i ricoveri, le visite specialistiche, le TAC, gli interventi chirurgici. Alcune settimane fa un inchiesta de Il Mattino ha segnalato che 300 detenuti erano in attesa di ricovero all’Ospedale Cardarelli. Talvolta si aspettano tempi biblici che possono compromettere l’esito di una guarigione e che moltiplicano la sofferenza di chi già vive una situazione complicata.
Le soluzioni ci sono, anche di basso costo, perché tanto spesso si tratta di migliorare il coordinamento dei servizi e di promuovere una sinergia maggiore tra mondo penitenziario e sanitario. E con i soldi che sono a disposizione si possono effettuare miglioramenti delle attrezzature e dotare i Centri Clinici Penitenziari di macchinari e servizi che consentano di effettuare visite ed esami specialistici e piccoli interventi all’interno degli istituti. C’è urgenza oggi di rispondere a questa domanda di salute, con la convinzione che un carcere sano conviene a tutta la società. Altrimenti non ci resta che sperare in Padre Pio.