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Il Venerdì di Repubblica

20 Novembre 2015

Italia o l'ultima partita

Pena di morte, horror story dall'Italia al califfato

La battaglia contro le esecuzioni raccontata da Mario Marazziti, uno dei fondatori della comunità di Sant'Egidio. Inziando dagli Egizi e passando per la Toscana...

 
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Una misura iniqua, «una vendetta dello Stato», «una pratica che deve essere superata dall'umanità, come
fu superata la schiavitù». Sono parole di Mario Marazziti, uno dei padri storici della comunità di Sant'Egidio, detta l'Onu diTrastevere, già presidente del Comitato permanente per i diritti umani alla Camera, uno dei fondatori della Coalizione Mondiale contro la pena di morte nata a Roma nel 2002, oggi alla guida della commissione Affari Sociali a Montecitorio. In un libro uscito in questi giorni, Life, da Caino al Califfato: verso un mondo senza pena di morte (Francesco Mondadori) Marazziti racconta la sua battaglia contro la pena di morte - i cortei davanti a San Quentin, le vittorie storiche ma anche le sconfitte, la galassia delle associazioni, i singoli casi, la cronologia, le modalità, i distinguo delle religioni. E l'impegno dell'autore rispecchia quello dell'intera Comunità di Sant'Egidio, oggi presente in una settantina di Paesi, centro di volontariato nella lotta all'Aids, nella protezione degli ultimi, nell'accoglienza ai migranti, ma anche canale alternativo di diplomazia umanitaria che negli anni ha promosso accordi di pace in Mozambico, Guatemala, Burundi, Costa d'Avorio, Liberia, Kossovo, Congo, El Salvador. «Un portoncino verde nel cuore di Trastevere» scrive Marazziti, «che ha visto entrare due papi, premi Nobel, patriarchi, autorità islamiche, Madeleine Albright e Angela Merkel, capi di Stato, guerriglieri, ex condannati a morte, e soprattutto i poveri».
Parte da lontano Marazziti, dal 3100 a. C. e dagli antichi Egizi che giustiziavano i traditori per impalamento, e arriva fino al 27 maggio 2015 quando il Nebraska ha votato l'abolizione della pena capitale. Dal Granducato di Toscana, primo stato abolizionista, ai furori dell'Isis: «La pena di morte degli spot del Califfato nero sulle rive libiche, nel teatro di Palmira, nei deserti siro-iracheni è diventata moltiplicatore e propaganda scientifica del terrore a livello planetario. Un deterrente usato al contrario» osserva l'autore.
Ed ecco che, in Ungheria, il premier Viktor Orbàn vorrebbe reintrodurla.Tre quarti dei Paesi del nostro Pianeta l'hanno cancellata, ma sono ancora troppi quelli che si rifiutano di abolirla e anzi, continuano ad applicarla, dalla Cina agli Stati Uniti (sempre più raramente), da Singapore, dove essere condannati all'impiccagione è persino banale, al Giappone, che oggi conta 129 reclusi nel braccio della morte, tutti in attesa che sia eseguita la sentenza.

Morti che camminano. Parte della pena consiste proprio nell'attesa, lo stillicidio dei giorni, dei mesi, degli anni che trascorrono uguali aspettando che il boia sia chiamato materialmente ad uccidere. Come scrisse Albert Camus , «c'è un'organizzazione che è essa stessa una fonte di sofferenze morali più terribile della morte». I tempi si dilatano nell'incubo, come è successo in Giappone a Iwaho Hakamada, caso limite, il pugile oggi settantanovenne che ha trascorso nel braccio della morte 47 anni, una vita. Condannato alla pena capitale per omicidio ai tempi in cui non esisteva l'esame del Dna, è stato scagionato l'anno scorso per non aver commesso il fatto.
Tempi dilatati, anche se in misura minore - «solo» dieci anni in cella di isolamento nel carcere di Ricson,Arizona - per il postino Ray Krone, condannato a morte per stupro e omicidio e scagionato nel 2002 sempre grazie al test del Dna, rimesso in libertà con tante scuse. Il killer dedito al cannibalismo che la polizia cercava non era lui, bensì un vicino di casa della vittima. Krone, la cui unica colpa era stata quella di avere un pessimo avvocato, è noto fra gli attivisti anche come il numero 100: è il centesimo condannato alla pena capitale negli Stati Uniti a uscire dal braccio della morte innocente e soprattutto vivo. Si stima che ogni sette giustiziati ce

ne sia uno che non era colpevole: una percentuale inquietante.
Marazziti racconta in presa diretta. Con pochi soldi in tasca va a vedere di persona, parla con vittime e carnefici, con i genitori degli uccisi e con i genitori degli assassini. Visita i cimiteri che accolgono i giustiziati i cui corpi non sono stati chiesti indietro dalle famiglie. Descrive i casi di chi, anche sulla sedia elettrica, non riusciva a morire. Incontra i medici che presenziano all'iniezione letale (che sono poi tre iniezioni consecutive, il segnale convenuto fra il dottore e l'infermiere
perché inietti la terza fiala, quella mortale, è il momento in cui il dottore si toglie gli occhiali).
«Un racconto commovente e incredibilmente accurato del perché una pratica abominevole dovrebbe essere abolita»: sono le parole con cui Desmond ha accolto questo libro metà diario metà pamphlet, che si chiude con Tredici modi per vivere senza la pena di morte. Passi avanti ne sono stati fatti, anche grazie a papa Francesco che nell'ottobre dell'anno scorso ha chiesto l'abolizione universale della pena capitale, ma la strada è ancora lunga. Dei 192 paesi rappresentati alle Nazioni Unite 105 sono abolizionisti per legge e altri 43 hanno sospeso la pena capitale, o attraverso una moratoria ufficiale, o con una moratoria di fatto. Fra i paesi che ancora ricorrono alla pena di morte l'Arabia Saudita, l'Iran, l'Iraq, l'Egitto, la Cina, il Giappone, l'India, gli Stati Uniti.


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