La disperazione non si combatte con le armi

Terrorismo

Quasi 30 attentati terroristici nel primo trimestre del 2016 in Africa, Asia, Europa e Nord-America, che hanno causato centinaia di morti e migliaia di feriti. Si è trattato dello scoppio di bombe o di attacchi di kamikaze che sono andati dal militante che si è fatto esplodere al grido di 'Allahu Akbar!' (Allah è il più grande!) in un ristorante afghano di Kabul il primo giorno dell'anno, fino ai 72 morti, prevalentemente cristiani, frutto del gesto di un altro attentatore suicida il 27 marzo in un parco di Lahore, in Pakistan. Passando, certo, per il tremendo triplice attentato all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles, nel cuore dell'Europa, che ha avuto un bilancio di 35 morti e 350 feriti.
Si intaccano le libertà individuali
Quando queste riflessioni giungeranno al lettore, quasi sicuramente la lista sarà più estesa ed altro sangue sarà stato versato. E c'è già chi chiama tutto ciò, come fa nel numero di fine marzo il settimanale The Economist, «la nuova normalità». La condizione cioè in cui si trova a vivere al giorno d'oggi gran parte dell'umanità costretta a fare i conti con il flagello di un indomabile terrorismo e con sempre più dure misure adottate dai governi per contrastarlo. Misure che purtroppo ora cominciano ad intaccare frequentemente le libertà individuali. Come è successo in Francia, dove è in vigore dopo gli attentati del 13 novembre 2015 uno stato di emergenza che permette alla polizia di perquisire abitazioni senza mandato e di porre persone agli arresti domiciliari senza bisogno di consultare per questo un magistrato. Giustificando le misure eccezionali adottate, il presidente François Hollande ha in sostanza fatto pesare il fatto che quel massacro di 137 persone è stato il peggiore atto di sangue mai registrato in Francia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. E che è impossibile rispondervi senza l'adozione di provvedimenti senza precedenti. Ma nonostante questo clima da stato di eccezione e misure di polizia che si fanno ogni giorno più pesanti, il tempo passa ed il fenomeno terroristico continua a crescere. Fino a quando? Fino a dove?
Gettare la spugna?
Si avverte un atteggiamento strano e pericoloso nell'opinione pubblica che appare intimorita e intrappolata in una sorta di abulia da cui non è possibile scuotersi. Come, insomma, se pur essendovi lucida coscienza dell'esistenza di una serie di eventi orrendi, l'uomo della strada è nell'impossibilità di fare alcunché di efficace e concreto per reagire, oltre ad espressioni di sgomento e sdegno. Guardando poi la tv, leggendo i giornali e perfino andando al cinema, si constata che immagini e notizie di orrori, guerre, distruzioni e catastrofi fanno in fin dei conti ormai parte sia della nostra realtà quotidiana sia della fiction cine-televisiva che ne propone una parafrasi. Bisogna gettare la spugna? In dichiarazioni a Il Mattino di Napoli, Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant'Egidio, ha osservato che «ciò che importa davvero rilevare è che la paura che attanaglia l'Occidente di questi tempi, non può e non deve comprimere i sentimenti di solidarietà e cordoglio verso fatti di sangue apparentemente più lontani e meno intelligibili. (...) Guai a cedere alla logica dell'inevitabilità». Il problema è che la globalizzazione, portatrice di indubbi vantaggi alla nostra capacità comunicativa, ha allo stesso tempo contribuito a complicare l'interpretazione dei fenomeni, dandoci la falsa sensazione di avere a disposizione tutti gli elementi per dominare problemi e soluzioni. Ma la verità è che oggi come oggi, non solo non disponiamo spesso delle chiavi di interpretazione di tali fenomeni, ma anzi esse ci vengono nascoste ad arte da informazioni orientate verso i media in modo da proporre una lettura degli avvenimenti a senso unico, con formule «tutto compreso» che includono anche una classificazione precotta dei 'buoni' e dei 'cattivi'.
Ripensare l'idea di terrorismo
È urgente a questo proposito uno sforzo importante per ripensare la storia del terrorismo, specialmente quella successiva alle lotte di liberazione dell'epoca coloniale e al contrasto delle dittature sudamericane, da cui emergeva che rivoltarsi contro chi opprime, ad esempio un governo dittatoriale, non poteva essere considerato sistematicamente un atto di terrorismo. Finita quella stagione, l'attenzione degli Usa e delle Grandi Potenze occidentali si è progresivamente spostata verso regioni di Asia, Medio Oriente e Golfo, con alti contenuti strategici o energetici. Ma chi può dire di avere chiaro in che modo questo processo è avanzato negli ultimi due decenni del secolo scorso e nei primi due di questo? E quale ne sia stato il costo per le popolazioni interessate? Senza che la gente comune fosse messa al corrente degli obiettivi e delle decisioni dei governi, sono state condotte in questi quasi 40 anni guerre di vario tipo con un uso spregiudicato delle alleanze e con armamenti forniti per raggiungere determinati obiettivi perfino a personaggi come Osama bin Laden e Saddam Hussein, scelti come compagni di viaggio in un primo tempo, e poi combattuti come 'bestie nere' e fomentatori del terrorismo. È anche a causa di questa logica che la nostra storia recente ha dovuto registrare drammatici attentati. Su tutti, le Torri Gemelle di New York l'11 settembre 2001. Ma prima e dopo di quel terribile episodio, aerei da caccia ed elicotteri americani ed europei sono intervenuti per anni lanciando contro «terroristi nemici» bombe che hanno però colpito troppo spesso anche la popolazione civile, senza che del dolore di essa fosse mai offerta alcuna documentazione.
I danni collaterali
E ai giorni nostri, nella guerra dimenticata dello Yemen, aerei da caccia sauditi e di Paesi alleati bombardano ciecamente posizioni deí ribelli Houthi sciiti massacrando senza rimpianti gli abitanti inermi. Sono «danni collaterali» come questi, ripetutisi nel tempo e tenuti segreti, che hanno contribuito a nutrire un astio profondo verso l'Occidente, che da molti Paesi arabi ed islamici si è trasferito anche nelle periferie delle grandi città europee, di Parigi e Bruxelles. Qui le nuove generazioni, nate dagli emigrati provenienti da quelle zone, hanno recepito questo astio come un utile strumento di rivincita anche per le discriminazioni subite nella società di accoglienza, scuole e vita professionale comprese. E a fare da strumento catalizzatore a tutto questo è giunta una rinnovata spinta da parte di alcuni Paesi islamici fondamentalisti - l'Arabia Saudita «alleata» dell'Occidente prima fra tutti - alla diffusione dei canoni più oltranzisti dell'Islam sunnita. Attraverso lo strumento religioso hanno preso forza progetti espansionisti come quello del Califfato che punta al ritorno a quell'epoca d'oro in cui i musulmani dominavano su una vastissima regione estesa dal Portogallo alle Repubbliche ex-sovietiche. E sotto gli occhi di tutti quello che, non tanto Al Qaida, ma l'Isis ed il suo califfo Abu Bakr al-Baghdadi sono stati capaci di fare per perseguire questo obiettivo. Almeno fino a quando - ed è storia recente - non si è manifestata una intesa internazionale per cominciare a ridimensionare l'Isis soprattutto nella regione a cavallo di Siria ed Iraq dove è nato in modo violento e spregiudicato il progetto di sfida islamica al mondo esterno. C'è anche da dire che il gruppo dei musulmani sunniti più radicali attacca sistematicamente interessi occidentali non solo negli Usa e in Europa, ma anche in molti Paesi africani e in altri asiatici, E conduce anche una seconda, non meno cruenta, battaglia all'interno stesso del mondo islamico. Si accanisce infatti contro coloro che non rispettano la presunta ortodossia del salafismo wahabita che propugna un ritorno alla purezza della religione delle origini, e si scaglia contro tutte le deviazioni corrotte, come il sufismo, e considera gli sciiti alla stregua di infedeli. I violenti che cavalcano questa ideologia non sono affatto la maggioranza della galassia musulmana, che è composta da gente per lo più mite e pacifica. Ma essi dispongono di vaste risorse finanziarie e soprattutto sono organizzati con movimenti armati determinati ad imporre con le cattive più che con le buone le loro presunte ragioni.
Si sono combattuti gli effetti e non le cause
Concludendo, purtroppo non esiste una ricetta miracolosa e di rapido effetto per impedire a questi promotori della violenza cieca di continuare a reclutare militanti fra le giovani generazioni. Ma appare ormai evidente che la risposta armata che finora è stata prevalente nelle scelte dei governi occidentali ha solo combattuto gli effetti e non le cause del terrorismo. Essa dovrebbe progressivamente essere sostituita, dove possibile, da iniziative e progetti politici ed economici capaci di ridare senso a gente che oggi è in preda alla disperazione. E che, assediata dalla guerra e dalle bombe, non ha spesso altra opzione che quella di rischiare la vita per emigrare verso un continente, come l'Europa che ha mostrato fra l'altro i suoi limiti e non esita a respingerli.


[ Maurizio Salvi ]