ROMA. C'è chi ha fatto il conto: dalla fine del secondo conflitto mondiale, nel mondo ci sono state 150 guerre civili (dieci sono in corso) e 416 conflitti militari nei quali hanno partecipato le varie religioni. Tutti contro tutti. Chi ferma queste violenze? Sarebbero capaci le religioni che - a dirla con il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni - «non sono un'assicurazione contro la violenza, ma contengono istanze per una costruzione giusta e pacifica della società»? Una risposta (o almeno una proposta) a queste domande viene dalla Comunità di Sant'Egidio che ha riunito a Roma i rappresentanti delle più diverse religioni che si sono confrontate sul tema della violenza. La proposta è quella di un «patto comune» delle religioni, delle culture e della diplomazia, per sradicare la violenza nelle tante aree del mondo. Un «patto comune» unito a una nuova teologia che si contrapponga a quella del dominio che è fonte di violenza.
Su questa proposta concordano il presidente della Comunità trasteverina, Marco Impagliazzo, e Jerry White, il leader della Campagna internazionale contro le mine antiuomo che nel 1997 ha ricevuto il Nobel per la pace. «Per raggiungere l'obiettivo della pace nel mondo - dice Impagliazzo - la diplomazia tradizionale ha bisogno di nuovi strumenti che coinvolgano tutte le dimensioni della vita: la religione in primo luogo, poi la politica, la cultura, la lotta al sottosviluppo. L'intera società civile - aggiunge -deve essere impegnata in uno sforzo di superamento di antiche diffidenze quando non di veri e propri conflitti che sono all'origine delle esplosioni di violenza e di terrorismo che hanno insanguinato il mondo all'inizio del terzo millennio». Concorda White: «La diplomazia tradizionale ha scoperto come le religioni possano contribuire alla costruzione di un ecosistema di pace iniettando virus di pace in un mondo infetto da un'epidemia di violenza». Tutto può concorrere, anche Internet, come suggerisce l'intellettuale indiano, Sudheedra Kulkarni, che definisce il web un'arma di costruzione di pace.
I vari conflitti, quanto accade in Paesi come la Nigeria, il Pakistan o il Centro Africa, sono la dimostrazione, secondo Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, che la violenza è in forte crescita: «Le organizzazioni violente - spiega - si rivolgono alle religioni per essere legittimate. Nessuna religione, però, è condannata alla violenza da se stessa. Tutte le religioni sono interpellate dalla violenza, sono tentate da essa, sono talvolta sopraffatte, mentre in altri casi resistono a essa e guariscono l'umanità dalla sua presa». Dall'intenso confronto di Roma si delineano alcuni fili di questa nuova teologia. «Il violento che si richiama a una religione - dice ad esempio il preside della facoltà di teologia di Barcellona, Armand Puig i Tàrrech - interpreta la sua violenza in rapporto con l'onnipotenza di Dio, come se lui fosse Dio, ma lascia da parte la clemenza e la misericordia divine, fondamentali per capire l'identità di Colui in cui si crede». L'errore, nota poi il cardinal Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio consiglio per l'Unità dei cristiani, «è il sostenere che il credere in un solo Dio implichi generalmente e inevitabilmente l'esclusione delle altre religioni e, quindi, la violenza esercitata nei confronti di queste ultime». Queste confusioni vanno chiarite - è l'idea di Muhammad Khalid Masud, membro della Corte suprema del Pakistan - appunto con una nuova teologia messa a sostegno della cooperazione fra Stati, in luogo del dominio dell'uno sull'altro.