«L'equazione musulmani uguale potenziali assassini non solo è inaccettabile a livello storico e culturale, ma è anche molto pericolosa. Chi la pronuncia si avvia fatalmente su un cammino di odio che porta solo a grandi tragedie. Ed è esattamente quello che vogliono gli estremisti: costruire barriere di paura, odio e diffidenza, minare la pace, la sicurezza e la convivenza per arrivare alla guerra di civiltà». Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio ed ex ministro dell'Integrazione, profondo conoscitore del mondo islamico, è stato a Parigi per partecipare alla marcia contro il terrorismo. E spiega: «Siamo di fronte a una sfida molto complessa, che va affrontata con intelligenza e coraggio e che non si presta a semplificazioni controproducenti».
Professor Riccardi, non c'è il rischio di sottovalutare il terrorismo islamista?
Per combattere un nemico pericoloso e micidiale come questo bisogna conoscerlo. Dire che i musulmani sono assassini è un falso, più o meno come dire che gli ebrei sono usurai o gli italiani lavativi. La radice di questo terrorismo non è la religione islamica, ma l'uso ideologico distorto che si fa di questa. Vale lo stesso discorso per gli immigrati: sostenere che i rifugiati, che fuggono dalle guerre e dalle persecuzioni in Africa o in Medio Oriente, sono potenziali terroristi significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Anche perché, come il caso della Francia ci insegna, i due terroristi erano cittadini francesi da due o tre generazioni. Senza dimenticare che due morti in Francia, il poliziotto e un correttore di bozze, erano maghrebini.
E, dunque, cos'è che non ha funzionato?
Non c'è stata una visione complessiva. Credo che dobbiamo rivedere a fondo il problema dei modelli dí integrazione, che hanno funzionato in modo discontinuo. A partire dalle alienanti periferie urbane, ridotte ormai a un deserto disumano e disumanizzante. Le periferie di Parigi, così come quelle delle grandi città europee o mondiali, Roma compresa, sono state via via abbandonate dalle istituzioni, dai partiti, dalle forze sociali. In queste condizioni, aggravate dalla crisi economica e dalla crisi della famiglia, i giovani crescono ghettizzati, nell'odio, nella diffidenza e nella volontà di rivalsa. Nelle favelas brasiliane o nei sobborghi di Città del Messico molti giovani trovano una sorta di riscatto dall'anonimato e dalla solitudine arruolandosi nelle bande malavitose. A Parigi i giovani islamici lo fanno rifugiandosi nel fanatismo. Per questo dico che bisogna fare ogni sforzo per la sicurezza, che implica il massimo di collaborazione tra le intelligence e le polizie europee, ma anche puntare sull'integrazione.
Cosa si dovrebbe fare in Italia?
Proprio a cominciare dalle periferie, bisogna rompere i muri all'interno dei quali si sono rinchiuse, come in tanti ghetti, le diverse comunità etniche e religiose. E poi fare rete, parlare, creare occasioni di dialogo e di incontro con le istituzioni e tra gli italiani, vecchi e nuovi, riscoprendo il senso della comunità nazionale e del destino comune. Bisogna lavorare sull'educazione, sulla scuola, sulla lingua italiana, che è un veicolo formidabile di integrazione. Certo, serve un impegno costante e servono uomini e risorse. C'è oggi un'emergenza economica e una istituzionale, su cui c'è l'impegno del governo. Ma c'è anche l'emergenza integrazione, sulla quale si gioca tanta parte del futuro della nostra società. Senza alcuna nostalgia personale, dico che fu un'intuizione importante del governo Monti quella di prevedere che a livello di Consiglio dei ministri ci fosse una persona che si occupasse stabilmente di queste tematiche in accordo con quelle della cooperazione internazionale che è poi l'altra faccia della medaglia.
Una proposta concreta?
Ricordo che istituimmo la Consulta nazionale dei leader religiosi delle comunità immigrate che si incontravano periodicamente tra loro e con rappresentanti del governo. Partimmo dalla considerazione che i leader religiosi hanno una fortissima capacità di guida e di influenza nei confronti dei loro connazionali. Non possiamo pensare di isolare i violenti senza la collaborazione della loro comunità. Credo che un'esperienza del genere sia da riscoprire sia a livello nazionale che a livello locale, dove secondo me andrebbe potenziato il ruolo dei consigli territoriali dell'immigrazione, previsti a livello di prefetture.
A livello internazionale che cosa serve?
La mia impressione è che l'Europa negli ultimi anni si sia chiusa sdegnosamente come una fortezza, tagliando i ponti naturali con l'Africa e il Medio Oriente in fiamme. Ma è un'illusione poter pensare di andare avanti con le guerre alle porte di casa. Penso alla Libia, alla Nigeria, al Medio Oriente ma anche all'Ucraina. Bisogna che l'Ue riprenda a fare politica estera in grande.
E sull'Isis che opinione si è fatta?
Mi sembra anche anche lì l'Europa affronti la questione in modo rassegnato, limitandosi a sperare che l'aiuto dato ai peshmerga risolva come per incanto tutti i problemi.
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