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13 Aprile 2014

La guerra dimenticata in Casamance. "Pace mai così vicina"

L'ebbe Fulgence Coly, responsabile della Caritas, si dichiara ottimista. Il movimento dei guerriglieri è diviso in fazioni. Con i loro leader trattano soprattutto esponenti della comunità cristiana. Paul Abel Mamba Diatta, vescovo di Ziguinchor, ha chiesto di "coordinare tutte le iniziative" di mediazione. Le difficoltà per la Caritas di garantire gli aiuti, anche in vista del ritorno dei profughi

 
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In Casamance "non siamo mai stati così vicini alla soluzione del conflitto!". Parlando da Ziguinchor, capoluogo dell'enclave meridionale senegalese, l'abbé Fulgence Coly, responsabile della Caritas locale, non nasconde le speranze che sia veramente vicino un momento di svolta per questa guerra dimenticata, che dura ormai dal 1982. "Meno tensioni non significano certo la fine del conflitto" tra l'esercito regolare e i guerriglieri autonomisti del Movimento delle forze democratiche della Casamance (Mfdc), riconosce il religioso, ma, continua, "la situazione generale è migliore, sono diminuite, ad esempio, le estorsioni sulle strade" e soprattutto, da dopo l'insediamento, nel 2012, del presidente Macky Sall, si avverte "una particolare attenzione alla regione". 

Mediazioni da coordinare. L'analisi è condivisa da don Angelo Romano, dell'Ufficio relazioni internazionali della Comunità di S. Egidio, impegnata nella mediazione con uno dei rami del Mfdc, quello guidato da Salif Sadio. "Tra le parti si è fatta strada la consapevolezza che questo conflitto va risolto percorrendo la strada negoziale e non con l'illusione di soluzioni militari, ed è la prima volta che questo avviene così chiaramente", spiega il religioso, portando come esempio proprio l'ultima intesa siglata lo scorso febbraio, e resa pubblica solo parzialmente. Tra le "misure di fiducia reciproche", su cui ci si è accordati pur in assenza di una tregua formale, ci sono disposizioni che permettono una circolazione più facile per le delegazioni negoziali e che incoraggiano il contatto, anche da parte dei ribelli, con le popolazioni civili, in modo che queste possano "manifestare il loro desiderio di pace".

A complicare lo scenario, però, interviene il fatto che quella guidata da Sadio - attiva nei pressi del confine con il Gambia - è appunto solo una delle componenti in cui è oggi diviso I'Mfdc. "Trattative separate - specifica don Romano - sono in corso con la fazione legata a Cesar Badiate, che agisce vicino alla frontiera con la Guinea-Bissau, più a sud". In questa seconda mediazione sono impegnati, tra gli altri, l'arcivescovo di Dakar, card. Theodore-Adrien Sarr, e mons. Paul Abel Mamba Diatta, vescovo di Ziguinchor. Proprio il presule ha recentemente chiesto di "coordinare tutte le iniziative" di mediazione, ribadendo il suo ottimismo per il futuro. "Il governo del Senegal - conferma don Romano - non ha altra scelta se non quella di negoziare con tutti i rami in cui si è diviso il movimento indipendentista° e le autorità, secondo il religioso italiano, sono coscienti "della necessità di creare una sinergia tra questi sforzi" di pacificazione.

L'impegno della Caritas. La situazione politica ancora non ben definita, infatti, ha conseguenze facilmente immaginabili sul territorio. "I militari si stanno spostando e raggruppando - testimonia l'abbé Coly - e le popolazioni tendono a seguirli". Dal punto di vista umanitario, prosegue, "c'è dunque qualche difficoltà di gestione dei movimenti della popolazione": gli sfollati vengono spesso ospitati da famiglie locali, le cui case sono però "ormai sovraffollate", La Caritas locale non si limita a individuare altri luoghi dove possa rifugiarsi chi abbandona i propri villaggi per paura, ma mette in opera anche programmi i reinserimento scolastico per i più giovani e, quando i profughi scelgono di tornare, cerca anche di rendere di nuovo abitabili i villaggi, ricostruendo case e scavando pozzi per sostituire quelli abbandonati.

A rendere più difficile questo impegno intervengono, però, le mine rimaste  sul territorio dopo anni di conflitto. Questi ordigni hanno provocato circa mille morti dagli anni Ottanta, e impediscono anche una ripresa delle attività economiche: "Se tutto il territorio fosse sminato - considera l'abbé Coly - le famiglie potrebbero lavorare tranquillamente i campi". Anche  le organizzazioni assistenziali come la Caritas, continua "possono lavorare solamente dove la sicurezza è garantita e lo sminamento è avvenuto". Quest'ultimo resta dunque "la priorità" secondo il sacerdote, ma anche quando sarà terminato "bisognerà fare un'opera di accompagnamento di coloro che torneranno, per aiutarli a rimettersi in piedi soprattutto sul piano dell'agricoltura, recuperando le terre abbandonate". Ma per farlo, ribadisce, "è indispensabile il dialogo", la cui conclusione, dunque, è ancora più urgente. 

 
Davide Maggiore

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