MILANO - "Sogno di avere una camera nostra. Basta una camera, non serve una casa, ma poter aprire e chiudere la porta. Essere di nuovo una famiglia, insomma". Così Nesrine, 33 anni, palestinese nata nel campo profughi di Yarmouk a Damasco, riassume tredici mesi di fuga dalla guerra siriana insieme alle due figlie di 7 e 10 anni. Prima sono scappati dalle raffiche di mitraglia, in cui è morto suo fratello più piccolo, espatriando in Egitto. Da lì, una settimana in mare stipata sul barcone e pochi giorni al centro di Pozzallo in Sicilia; poi una nuova fuga, in treno, verso Milano, dove si trova ora.
Obiettivo: nord Europa. Nesrine è infatti una dei quattromila siriani tra uomini e donne e 1.100 bambini, alcuni dei quali di soli pochi giorni, che sono stati ospitati nelle strutture del Comune di Milano da ottobre ad oggi. Come tutti i suoi connazionali, progetta di raggiungere il nord Europa (Svezia, Germania, Danimarca, Norvegia), dove ci sono i parenti e soprattutto una lunga e consolidata tradizione di accoglienza. "Sto aspettando i soldi e un modo per raggiungere mio cugino vicino a Stoccolma; la cosa più difficile è spiegare questa attesa alle mie figlie, che da mesi mi chiedono quando potranno tornare a scuola". Ora sono ospiti in via Aldini, una delle due strutture del Comune gestite dal Terzo Settore (Arca, Farsi Prossimo) in base alla convenzione sottoscritta con la Prefettura (30 euro a persona al giorno per 240 posti).
L'unità di crisi del Comune. Sei mesi fa, i Giovani Musulmani, la Comunità di Sant'Egidio e tanti cittadini avevano segnalato che centinaia di profughi, tra cui numerosi minori, trascorrevano giorno e notte accampati in Stazione Centrale, senza nulla. I primi arrivi erano già di agosto, ma a metà ottobre, con i nuovi sbarchi, i numeri erano saliti notevolmente. Da allora, il Comune ha costituito un'unità di crisi con operatori e volontari delle diverse realtà per organizzare l'accoglienza nei centri; le presenze variano in base agli sbarchi al sud e, a marzo, sono riprese ad aumentare, tra le 200 e le 240 negli ultimi giorni (il picco il 23 marzo, 560). Si tratta di veri e propri luoghi di transito: delle migliaia di siriani che ci sono passati, solo in otto hanno fatto richiesta di asilo in Italia; gli altri mediamente sono ripartiti dopo una settimana, passando di nascosto i confini. Qualcuno è ritornato a Milano, respinto alla frontiera austriaca o francese, oppure truffato da chi aveva "organizzato" il viaggio, ma subito ha iniziato, disperato, ad organizzare una nuova partenza.
Nei centri, si ascoltano storie di guerra e di fuga. Younma, quando arriva a Milano, ha abortito da quattro giorni a seguito del viaggio sul barcone e poi è scappata dall'ospedale siciliano per non essere identificata con le impronte digitali e costretta a rimanere in Italia. Huosam è disperato: non ha ancora avuto il coraggio di dire a sua moglie che il figlio più piccolo è morto, le ha detto solamente che non lo trovano più. Lei si aggira con gli occhi pieni di lacrime e la foto del bambino in mano, chiedendo a tutti di cercare su internet se ci sono notizie.
L'assessore alle Politiche sociali Majorino sottolinea come "Milano è diventata un modello di accoglienza, ma noi non abbiamo intenzione di essere lasciati ancora soli in questa situazione". A parte la convenzione con la Prefettura, parla di "una tragedia umanitaria che ogni giorno attraversa il nostro paese nella totale indifferenza delle istituzioni nazionali. Il Governo ci dica con chiarezza che cosa intende fare. Lo dico perché l'emergenza non è finita e continuerà nei prossimi mesi. L'invito a dare una risposta è rivolto anche alla Regione Lombardia, che alla fine di agosto aveva sottostimato il numero degli arrivi, tacciando il Comune di fare allarmismo e, da allora, non ha mai risposto a nessuno dei nostri appelli".
La paura di essere rispediti in Italia. Tra i profughi che sono riusciti a raggiungere il nord Europa, invece, la paura è un'altra: quella di essere rimpatriati un giorno in Italia. Molti di loro, infatti, hanno dovuto farsi registrare nel sistema Eurodac, database europeo delle impronte digitali. Secondo il regolamento europeo di Dublino, si deve fare domanda di asilo nel primo paese europeo in cui si arriva, ovvero nel primo stato in cui vengono registrate le proprie impronte digitali. Per questo, nei paesi scandinavi capita che i profughi si brucino le dita con l'acido o si provochino profondi tagli per non essere identificati. Ranea, anche lei di Yarmouk, dopo essere transitata a Milano, è ora ospite in una struttura vicino a Oslo e spiega: "Un avvocato norvegese mi sta aiutando a fare la domanda di asilo, ma ho paura di essere rimandata in Italia perché in Sicilia mi hanno preso le impronte. Io voglio rimanere qui".
Le proteste del governo svedese. Intanto, il Governo svedese sta iniziando ad avanzare delle critiche verso i Paesi del Mediterraneo che, pur ricevendo milioni in aiuti dall'Ue, si lamentano per l'arrivo dei migranti, ma, al tempo stesso, ignorano i regolamenti spingendo i rifugiati verso nord. Secondo l'Unhcr, nel 2013 la Svezia (9 milioni di abitanti) ha ricevuto 50 mila richieste d'asilo contro le 25 mila dell'Italia (60 milioni di abitanti). Quanto alle domande siriane, sono 677 da noi e 14.362 in Svezia, con la previsione di altre 23 mila nel 2014.
Stefano Pasta
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