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Credere La Gioia della Fede

13 Settembre 2014

Dove l'accoglienza è risposta all'odio

 
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«Siete nel cuore della Chiesa» ha detto il Papa ai cristiani perseguitati in Iraq. Per alcuni di loro, questa è la seconda fuga dal 2003, anno in cui ci fu la guerra per esportare la democrazia. Giovanni Paolo II vi si oppose fieramente. Temeva, tra l’altro, per i cristiani d’Oriente e aveva ragione: erano 1 milione e mezzo allora, sono meno di 300mila ora.
Vittime delle tensioni tra sciiti e sunniti, dopo il 2003 i cristiani lasciano Baghdad e altre zone dell’Iraq, rifugiandosi all’estero o nella Piana di Ninive, controllata dai curdi e dove ci sono storiche comunità cristiane. Nel 2013, tra la crisi dello Stato in Iraq e la guerra in Siria, inizia a farsi notare il gruppo di estremisti sunniti noto come Isis. L’esercito iracheno in dissoluzione cede ai miliziani armi di provenienza americana e importanti città nel nord e nel centro. Quella che sembrava solo una banda di jihadisti fanatici controlla ora un terzo sia dell’Iraq sia della Siria e, a fine giugno 2014, proclama la nascita del Califfato. La sua avanzata prosegue: «La gente è costretta a scappare in pigiama», così Suor Luigina racconta l’occupazione a inizio agosto di Qaraqosh, la più grande città cristiana dell’Iraq, e di tutta la valle di Ninive. I cristiani, come gli yazidi, devono scegliere tra la conversione e la fuga. Seguono esecuzioni raccapriccianti, ragazze rapite e vendute, la distruzione della tomba di Giona, un santuario interreligioso. Stremati, i profughi si rifugiano nel Kurdistan iracheno, dove ora dormono accampati in chiese, parchi, scuole e strade.

Sébastien Duhaut, 32 anni, è un novizio nel piccolo monastero Deir Maryam nel Kurdistan iracheno, della comunità Al Khalil, fondata a Mar Musa in Siria da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano rapito nel luglio 2013. Due anni fa, insieme a padre Jens e suor Friederike, Fra Sébastien (ma in Oriente anche i monaci sono chiamati «abuna», padre) si è stabilito in quella che era l’antica chiesa siriaco-cattolica della città di Sulaimaniya, dedicata alla Vergine Maria, tra antiche case di pietre e mattoni, aranci e gelsi. Per vivere la preghiera, il lavoro manuale e l’ospitalità. Pensavano di accogliere giovani cristiani, che qui accorrevano per i loro ritiri. Invece, da tre che erano, ora sono in 170, perché stanno dando rifugio ai cristiani di Baghdad, Mosul e della piana di Ninive, in fuga dalle violenze degli estremisti islamici che stanno mettendo a serio rischio una presenza attestata in Iraq fin dal terzo secolo. Eppure, secondo Sébastien «dialogare con l’Islam è paradossalmente la vocazione specifica dei cristiani in Medio Oriente»; per descrivere il senso del suo monastero, usa due parole care al Papa: «Occorrono luoghi per la misericordia, momenti di tenerezza, collocati in questa geopolitica di guerra».
Gli chiedo come lui, francese di Nancy, cresciuto in una famiglia che considerava la religione alla stregua della superstizione, sia finito a Deir Maryam. «È stato un lungo percorso – mi dice – in cui la mistica dell’Oriente, i canti e le preghiere in arabo dei cristiani mediorientali mi hanno fatto rinascere». Nella vita precedente, studiava Economia all’Hec, un centro parigino di eccellenza, fino all’ingresso nella diplomazia, prima all’Ambasciata a Kabul e poi al Ministero, maneggiando dossier delicati. In Afghanistan, Sébastien studia la lingua, traduce alcune poesie, viaggia vestito come i locali. «Qui, tra i musulmani – racconta – ho incontrato per la prima volta la dimensione mistica: nei villaggi, anziani analfabeti recitavano poesie e preghiere, il tempo sembrava sospeso. Una volta chiesi ad uno di loro chi fosse l’autore: “Non lo so più, non è importante”, mi disse. Tornato a Parigi, al lavoro non riuscivo più a sopportare la competizione quotidiana, le rivalità per la carriera».
Cercando qualcosa a cui ancora non riusciva a dare nome, parte per la Siria per studiare l’arabo. L’incontro che gli cambia la vita è quasi casuale: «Frequentavo una ragazza a Damasco, credente, mentre io mi dicevo ateo. Ci avevano parlato di Mar Musa e ci andammo». Qui, in una zona desertica a 1200 metri di altezza, abitata nel sesto secolo da eremiti, nel 1984 Paolo Dall’Oglio aveva iniziato con volontari locali ed europei il restauro del monastero, dove ora ha sede Al Khalil, dal nome dato nel Corano ad Abramo, “amico intimo” (di Dio). È una comunità che prega in arabo, mista (uomini e donne), ecumenica (diverse confessioni cristiane) e dedicata al dialogo islamocristiano. «Ci servirono – ricorda – delle verdure bollite, passavamo il tempo nel silenzio, di una dolcezza incredibile, della biblioteca. La ragazza che era con me mi piaceva, ma sentivo che avrei voluto rimanere là». Sébastien cominciò a frequentare Mar Musa, della religione diceva a se stesso: «Evidentemente non è vera, ma se lo fosse, sarebbe talmente bello…». Nel 2011, un amico siriano musulmano, torturato dal regime di Assad e poi ospitato al monastero, gli disse di aver vissuto lì “una nuova nascita”: «Quelle parole mi colpirono, salii sulle montagne e tra le mie preghiere risuonava anche quella islamica di “Allah akbar”, “Dio è più grande” del male e delle sofferenze inventate dagli uomini. Errando tra le rocce, finii per arrivare in una grotta abitata da un eremita nei primi secoli, quasi sbattendo il naso contro un’icona della Vergine». Sébastien chiede il battesimo, inizia l’anno di preparazione per diventare novizio e, leggendo il Catechismo, talvolta dice: «Ma è così semplice, più di quanto avessi immaginato sulle teorie del senso della vita». Su di lui veglia padre Paolo, un fratello maggiore che partiva per andare nel deserto tra i pastori a celebrare la messa, dicendo «si può lavorare al Regno di Dio solo se si è convinti di essere umili e poveri».
Nell’ottobre 2012 arriva a Deir Maryam, dove la sua giornata inizia con la preghiera delle 7, la mattina lavora (pulizie, riparazioni, marmellate), il pomeriggio studia e si dedica alla corale, mentre alla sera, prima della Messa, c’è un’ora di meditazione silenziosa. In ogni momento, si vive il dialogo con l’Islam: «Negli Atti Pietro scrive che “Dio non fa differenza tra gli uomini”. Dato che lui è il Creatore, si lega a tutti. A partire da questo, noi dobbiamo andare incontro agli altri: Pietro verso i non ebrei, i “pagani”, e noi oggi, nella nostra esperienza di cristiani d’Oriente, verso quegli “altri” che sono i musulmani». A suo avviso, il dialogo deve essere vissuto all’interno dell’anima di ciascuno, guardando con simpatia e curiosità all’altra religione, e negli incontri personali. Lui visita regolarmente l’imam di Erbil, un uomo colto che gli regala delle piante che ha coltivato accanto alla moschea e gli racconta di antiche relazioni tra religiosi cristiani e musulmani. «Cose semplici – aggiunge il novizio – come la donna di un villaggio curdo che mi offre in quantità acqua fresca e latte cagliato dopo una lunga camminata e, davanti al mio stupore, mi dice con naturalezza: “È normale, è l’islam”».
Dopo le stragi degli estremisti del cosiddetto Califfato, Fra Sébastien non nasconde la fatica di questo dialogo: «Qualche giorno fa, discutevo con una ragazza che era dovuta fuggire dal proprio villaggio, perdendo tutto. Disgustata, diceva di detestare in blocco l’islam e di volersene andare dalle società mediorientali. Le ho provato a rispondere che musulmani sono anche quelli che ci hanno protetto e che hanno fatto una scelta diversa dagli estremisti. Noi cristiani abbiamo una missione presso di loro, il loro islam ha bisogno della nostra presenza».
A inizio giugno, quando sono arrivati i primi 30 profughi, Sébastien si trovava da solo al monastero: «L’ospitalità è una cosa abituale, non ci siamo neanche posti la questione se accoglierli». Da allora, i racconti di violenze, torture, morti, fughe nel deserto, sono tanti; per molti si tratta della seconda fuga in pochi anni: dopo quella da Baghdad e da altre zone dell’Iraq, quest’ultima dalla Piana di Ninive. La scorsa settimana, quando tra i profughi il novizio ha visto arrivare alla porta una donna che conosceva, le ha rivolto il benvenuto rituale: «Non è riuscita neanche a rispondere, si è accasciata a terra piangendo». Sébastien racconta poi la storia di Cristina, 2 anni, strappata a sua madre al momento dell’espulsione degli ultimi cristiani da Qaraqosh. «Pregate per lei, per i genitori ora ospitati al monastero e per noi tutti, perché non ci facciamo vincere dall’odio», chiede. E poi la richiesta più difficile: «Pregate anche per coloro che l’hanno rapita».
(n. 37/2014, 14 settembre)






 


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