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25 Novembre 2014

Poulat. La Chiesa del '900 al lume della storia

La scomparsa a 94 anni del grande studioso e sociologo della religione che analizzò tutti i luoghi della «crisi» cattolica nel secolo breve: modernismo, preti operai, laicità, post-cristianesimo

 
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Emile Poulat si è spento sabato nella sua casa al Quartiere Latino, a Parigi. Non lontano dal tavolo da lavoro e dai libri, ordinati come solo lui sapeva. Era l'officina da cui sono usciti tanti testi importanti per la storia e la sociologia religiosa europea.
La sua autorevolezza si diffuse con i primi libri: Storia, dogma e critica nella crisi modernista (1962, Morcelliana 1967), Nascita dei preti operai (1965, Morcelliana 1967), Integrismo e cattolicesimo integrale (1969). Ne sono seguiti tanti, come Chiesa contro borghesia (Marietti 1984) e L'era post-cristiana (Sei 1996). Al momento della morte, a 94 anni, aspettava l'uscita d'un altro volume.
Molto conosciuto in Francia, era stato direttore dell' École des hautes études en sciences sociales e al Centre National des Recherches Sociales, membro fondatore del Gruppo di Sociologia delle religioni. Sociologo e storico dalla sconfinata cultura, mostrava come questa fosse la chiave per penetrare in quella che chiamava la parte nascosta della storia. Era lontano da ogni apologetica o ideologia nel fare storia: L'histoire savante devant le fait chrétien è il suo ultimo libro (che mi ha dedicato - mi piace ricordarlo - con queste parole «Un testamento intellettuale con fervente amicizia»).
Il suo approccio ai problemi era esigente. La storia si fa per il dovere di capire, non per edificare. Ricordo come Pietro Scoppola, grande storico italiano e personaggio della vita civile, avesse riserve sul modo «freddo» ed erudito di fare storia, pur essendo suo amico. Poulat, sottile e con uno spirito acuto e frizzante, accompagnato dalla moglie Odile, compariva spesso ai convegni in Italia. Faceva notare agli appassionati colleghi italiani come il suo approccio fosse caratterizzato dalla scientificità.
Dava sostanza ai convegni organizzati con coraggio da Gabriele De Rosa, che in anni di marxismo imperante proponeva lo studio della religione e della religiosità popolare (invece considerata cultura subalterna). Chiamava affettuosamente De Rosa l'«imperatore della storia».  Veniva anche ai convegni di Pietro Borzomati e parlò alle Settimane Sociali italiane, oltre che su Pio XII a Bari. In un'Italia dalla cultura ideologizzata, Poulat ha scritto nel suo testamento: «Ho scelto di essere un uomo di scienza e di cultura, preferendo il sapere al potere senza fare del sapere un fine in sé». Il rigore e la cortesia nascondevano una storia che aveva radici in un altro mondo rispetto al "sapere". Quasi un mistero aleggiava sulle sue origini. Lui non ne parlava. Il primo libro di Poulat fu anonimo, Les prétres ouvriers. Pubblicato nel 1954, raccoglieva i documenti sui preti operai francesi che, in quell'anno, per ordine di Pio XII furono obbligati a lasciare il lavoro per «salvare» il sacerdozio; su circa cento preti operai, la maggioranza si rifiutò: tra essi Poulat. Gilbert Cesbron, con l'appassionante romanzo I santi vanno all'inferno (recentemente ripubblicato da Francesco Mondadori), ci immette nel clima di fervore missionario nella banlieue. Poulat in pochi mesi - mi ha raccontato - fece il giro dei preti operai, raccogliendo testimonianze e documenti. Era stato partecipe della passione missionaria nelle periferie proletarie; ne divenne lo studioso. Cominciava la storia di scienziato del fatto religioso. Non enfatizzò quella vicenda clamorosa, ma la collocò come un drammatico episodio d'una storia contrastata: il rapporto della Chiesa con la «classe operaia in marcia, quella dello scontro del cristianesimo... con una civiltà scientifica e tecnica, essa stessa lacerata dalle contraddizioni e dalle lotte che genera in essa la legge sovrana del profitto».
Il suo maestro, lo storico Gabriel Le Bras, notò con stupore come l'ancora giovane Poulat riuscisse a parlare con obbiettività d'una storia che lo aveva visto partecipe. Poulat, anni dopo, osservò che quella storia era stata un fallimento, ma aveva fatto capire la tempra dei cattolici ai comunisti francesi. Con la fine dei preti operai, cominciò la vita del professore: i temi dello scontro della Chiesa con la modernità scientifica e il metodo critico (la crisi modernista), dell'impatto con il proletariato (i preti operai), della laicità e tante altre problematiche.
Ne sarebbero scaturite letture acute, quella del cattolicesimo otto -novecentesco come «intransigente» che scandalizzò vari colleghi. Ma intransigente non vuol dire anche profetico? Le sue osservazioni sull'era postcristiana facevano scuola. Spaziava anche sulla mistica, ricordando che «tutto può divenire l'oggetto di studio scientifico... l'homo religiosus, l'universo delle credenze e delle pratiche religiose, il sacrificio come la preghiera». Un grande convegno in Sorbona nel 1999 consacrò la sua opera come quella di un maestro.
Pochi capirono come l'opera di Poulat avrebbe potuto essere decisiva per l'auto comprensione del cattolicesimo nel cuore di un passaggio epocale. Per lunghi decenni egli avvertì la distanza con la Chiesa, non per il suo passato, ma per il poco amore a capire. Il cardinal Lustiger, invece, intrattenne con lui negli anni Novanta un rapporto riservato: «Parlarsi per capire meglio». Distanze antiche si sanavano: lo si vide nell'elogio fattogli al Collège des Bemardins dal cardinal Vingt- Trois.
Anziano, il professore si ritrovava soprattutto nello spirito di Assisi e negli incontri annuali organizzati da Sant'Egidio in Europa. Gli parevano un approdo, che teneva insieme fili del passato e speranze presenti: era l'«umanità non riunificata, ma riconciliata», scrisse. Il Poulat segreto era quello della generosità, come l'aiuto cospicuo per la cura dell'Aids in Guinea Conakry. Mai retorico, a chi lo salutava, sapendosi alla fine, diceva: «Grazie per l'amicizia». Aveva spesso ricordato che la scelta per il "sapere" era l'amicizia con gli uomini e le donne di ieri e di oggi. Nel testamento ha scritto, guardando alla sua vita: «Ho tutto capitalizzato senza rinnegare niente». Ha concluso: «La nostra storia è stata quella di un secolo barbaro come non se ne erano conosciuti: violento, crudele, avido. La nostra stella è stata un mondo fraterno e pacifico, senza utopia, nella vita quotidiana».


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