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12 Dicembre 2014

Non dimentichiamo i Paesi francofoni

Si sono incontrati a Dakar passando inosservati, specialmente in Italia. Eppure appresentano il 16% del Pil mondiale e il 20% del commercio globale

 
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C'è un evento che sicuramente in Italia è passato inosservato, ma che non era privo di interesse. Mi riferisco al Vertice  della Francofonia, che si è svolto a Dakar e che, per la prima volta, è stato seguito da una riunione economica. Si obietterà che l'Organizzazione per la Francofonia interessa soltanto i francesi. È vero il contrario: in Francia l'importanza della francofonia viene trascurata, mentre molti altri Paesi membri la tengono da conto.
Si tratta di undici Stati africani, ma anche di Paesi asiatici (Vietnam e Cambogia), o americani. Il Canada e la provincia del Québec sono infatti fra i più dinamici all'interno di questa organizzazione, che ora è diretta dall'ex governatrice canadese Michaélle Jean, di origine haitiana. La scelta di Dakar come sede del vertice di quest'anno non è priva di importanza, perché l'idea di una comunità degli Stati francofoni si deve a Léopold Senghor, primo presidente del Senegal indipendente (oltre che a Habib Bourguiba). E poi perché l'organizzazione è stata diretta e incarnata dal successore di Senghor, l'ex presidente Abdou Diouf, e perché l'attuale presidente del Senegal, Macky Sall, vuole ormai conferirle un contenuto economico. Ci sono quindi due aspetti di questo vertice a cadenza biennale che hanno messo l'Africa in primo piano, uno politico e uno economico.
A mia conoscenza, in Italia soltanto la comunità di Sant'Egidio, con il suo infaticabile animatore Mario Giro, ha una conoscenza approfondita delle poste in gioco e degli attori di questo immenso continente, popolato da quasi un miliardo di abitanti (che nel 2050 diventeranno due miliardi). Pur trattandosi della sola Africa francofona, si sono comunque affrontate le questioni legate alla diffusione dello jihadismo, come testimonia l'intervento franco-africano in Mali.
L'altra tematica tradizionale è quella della democrazia. Nel 2015 si terranno almeno quattro elezioni presidenziali, con il rischio permanente di vedere, qui o lì, dei dirigenti che cercheranno di restare al potere nonostante i limiti costituzionali da loro stessi imposti. Così molti temono che il Congo-Brazzaville, governato per trent'anni dallo stesso uomo, sia minacciato dalla tentazione che ha portato, poche settimane fa, il Burkina Faso sull'orlo dell'abisso (i militari hanno sostituito il presidente cacciato dal popolo). Da questo punto di vista il discorso di Hollande ha suscitato più malumori che applausi, perché il presidente francese ha elogiato le elezioni, insistendo sul fatto che la legittimità di un governo deve essere il risultato di un processo democratico. In questo senso Dakar rappresenta un modello, perché in Senegal le istituzioni e l'alternanza vengono rispettate.
STESSA LINGUA. La novità è stata quindi il rendersi conto del portato economico che può rappresentare la francofonia: 16% del Pil mondiale, 20% del commercio mondiale e 14% delle riserve planetarie di risorse naturali. Questa considerazione arriva nel momento in cui gli economisti insegnano da un lato che la condivisione di una stessa lingua da parte di diversi Paesi favorisce i  loro scambi, e può portare un guadagno non indifferente per il prodotto interno per abitante; dall'altro che l'economia mondiale tende a organizzarsi non più intorno alle frontiere di uno Stato ma a partire da comunità di altra natura.
Due esempi: il vertice Asia/Pacifico fra gli Stati Uniti e i grandi Paesi asiatici è sempre preceduto da un vertice economico, volto a favorire gli scambi. Allo stesso modo, il Commonwealth è sempre accompagnato dal Commonwealth Business Forum, che dà concretezza a quello spazio linguistico. A Dakar è chiaramente emerso che esiste una richiesta dei Paesi francofoni di impegnarsi per una maggiore strutturazione di quella realtà, pur se composta da situazioni tanto diverse fra loro; per esempio l'esportazione del modello agricolo vietnamita in Africa, oppure il modello minerario canadese a cui aspirano i Paesi francofoni (in Canada ci sono 1500 società minerarie contro le 300 di tutto il continente africano); o ancora, la richiesta di alcuni Paesi di aprire delle sedi delle università francesi o canadesi in Africa.
È vero però che nel frattempo sono soprattutto la Cina e la Turchia che si dividono il grosso del mercato nei Paesi dell'Africa francofona. Ma, di nuovo, in un mondo aperto in cui domina la competizione, una strategia economica della francofonia dovrebbe permettere di fare dei passi avanti. Di certo resta da convincere la Francia a impegnarsi molto di più nella costruzione di uno spazio economico francofono, come ha chiesto Jacques Attali in una relazione recentemente presentata al presidente Hollande. 


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