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13 Gennaio 2015

Curarsi in carcere, il diritto del detenuto conviene a tutti

 
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E’ opportuno parlare oggi di sanità all’interno delle carceri? Vale la pena di soffermarsi sulla domanda  salute dei detenuti? Se ne discuterà nella giornata di oggi nella casa circondariale Giuseppe Salvia – Poggioreale, alla presenza del ministro della giustizia Andrea Orlando e del presidente della regione Stefano Caldoro. Un dibattito a più voci all’interno di quello che fino a pochi mesi fa era definito “l’inferno Poggioreale” e che dopo la riduzione di mille detenuti e l’avvio di un nuovo corso trattamentale sta tornando ad essere un carcere a misura d’uomo.
C’è un laborioso fermento e un grande entusiasmo per preparare questo evento, ma anche in vista della venuta di papa Francesco che il prossimo 21 marzo visiterà questa periferia esistenziale nel cuore della città e si fermerà a pranzo con i carcerati.
Nell’aprile 2008 fu emanata una importante riforma che trasferiva le competenze della medicina penitenziaria dal ministero della giustizia al servizio sanitario nazionale. Questo decreto legislativo prevedeva un principio fondamentale sancito dalla Costituzione: i detenuti e gli internati hanno gli stessi diritti nel campo della prevenzione, diagnosi e cura del cittadino libero. Tuttavia, a sette anni dalla sua approvazione, permangono ancora criticità e molti problemi restano aperti, e c’è chi parla di “riforma incompiuta”. Mancano modelli organizzativi omogenei per la medicina penitenziaria tra i diversi territori, andrebbe assicurata la stabilizzazione del personale medico e infermieristico laddove ci sono continui turnover, permangono lunghe liste di attesa per ricoveri, visite ed esami specialistici, i posti nei reparti detentivi degli ospedali sono insufficienti.
Indietro, però, non si può tornare. Il vecchio sistema era caratterizzato da un servizio sanitario anacronistico, autoreferenziale, basato su prassi operative improntate all’emergenza, dotato di strumentazioni obsolete, subordinato all’esigenza di ordine e sicurezza, in contrasto con il dettato costituzionale che garantisce ai cittadini privati della libertà pari diritti alla salute ed alla cura.
La riforma ha espresso il bisogno di una cultura nuova davanti a pregiudizi e a una grande rassegnazione. Nessuno può essere escluso dall’assistenza sanitaria perché ha commesso un reato. A chi vive una difficoltà, un disagio, psichico o fisico, deve essere data la possibilità di essere curato. Tutta la società civile deve sentire questa responsabilità.
Si dice che i detenuti hanno le stesse difficoltà che hanno le persone libere nel curarsi. Ma questo non è vero. I cittadini liberi possono scegliere da chi e dove farsi curare, per i carcerati questo non è possibile. Inoltre in carcere è più facile ammalarsi. La privazione della libertà, la promiscuità, la sedentarietà, gli ambienti umidi e la pressione psicologica, causano molteplici patologie.
I centri clinici somigliano a dei veri e propri cronicari, dove c’è un grande bisogno di assistenza specialistica, psichiatrica, infermieristica, soprattutto per gli anziani. Basti pensare che solo negli istituti campani ci sono 60 ultrasettantenni. Altro aspetto è quello dei tossicodipendenti, che necessitano di interventi socio-sanitari esterni per il loro recupero, ma scontano la pena tra le mura del carcere fino all’ultimo giorno.
Un carcere sano vuol dire un territorio sano. Far uscire persone sane dal carcere, significa restituire persone sane alla società. E questo sarà possibile solo se ci sarà una collaborazione e una sinergia tra tutte le istituzioni che se ne devono occupare, per far emergere quella potenzialità che la Riforma può e deve ancora esprimere.


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