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23 Agosto 2015

Nella periferia la Chiesa c'è ma è fragile, come la città

 
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La «catena dì comando» istituzionale non ha funzionato giovedì scorso per il funerale di Casamonica a Roma. È evidente. E preoccupante, perché eventi spiacevoli possono svilupparsi indisturbati nella periferia, senza che le autorità se ne avvedano. Il funerale-manifestazione è avanzato nel vuoto: i vigili hanno regolato il traffico, la stampa c'era, il rito è stato celebrato. La città l'ha avvertito, solo vedendolo in televisione.
È un episodio rivelatore di come sia smagliato il tessuto di Roma. «Noi ci siamo!» - è il segnale di una folta «comunità» stretta nel lutto per la perdita di uno dei suoi (di cui non sì contesta il diritto al funerale).
Questo avviene dopo la severa operazione di Mafia Capitale del procuratore Pignatone. La mafia c'è, nonostante il riduzionismo di chi pensa che il magistrato abbia riunito in una sola categoria fenomeni disparati. Una mafia alla romana, che non incontra resistenza. I Casamonica vivono alla Romanina, fuori dal raccordo anulare. Hanno scelto di celebrare il funerale non nella parrocchia
di quartiere, ma in una chiesa imponente, con una grande cupola e una vasta piazza, nella periferia storica di Roma, non lontano da Cinecittà. Qui, nel 1952, Pio XII volle la grande chiesa affidata ai salesiani, per marcare la presenza nell'area est della città, popolare e in espansione. Per un'ora, i Casamonica ne hanno fatto la loro «cattedrale», riempiendo la piazza di loro simboli: dalla periferia la loro presenza è sembrata una sfida alla Roma dei palazzi del centro. La compattezza comunitaria nel dolore attrae - più di quanto si possa credere - nel vuoto delle periferie, tra i soli e i disperati, nello «spazio opaco» ai margini della legalità.
Nelle vaste periferie di Roma non resta più nessuna rete. Nel dopoguerra, furono le reti sociali a «fare» i romani emigrati dal Sud nella capitale: le sezioni del Pci, la Chiesa, tante organizzazioni... Negli anni Settanta, la periferia fu messa al centro del dibattito politico, creando legami e portando i periferici a partecipare a una comunità di destino.
Tutto questo si è dissolto, lasciando un grande vuoto tra gente e istituzioni. Roma è spaccata. La gente è sola con una vita difficile. Le famiglie sono diventate più fragili; le comunità si sono pressoché dissolte. Nessuno si è accorto del funerale di giovedì, perché non esistono comunità. Un fatto simile nella Primavalle degli anni Settanta sarebbe stato impossibile. A Trastevere di vent'anni fa un corteo così non sarebbe entrato. E il quartiere di Don Bosco, in passato, si sarebbe allertato.
Oggi sono tutti mondi di gente isolata, che fatica a vivere una reazione collettiva. Questo spiega anche la difficoltà d'integrazione dei gruppi d'immigrati: i romani si percepiscono fragili di fronte ai nuovi venuti, pur essendo maggioritari e forti.
Resta nelle periferie la Chiesa. Se n'è percepita la fragilità al funerale a Don Bosco, quando gli amici del defunto hanno tappezzato la facciata del tempio con discutibili manifesti. Che poteva fare il parroco isolato all'interno? Fa pensare che non esista una rete che renda consapevoli di quel che sta accadendo. Gli organizzatori della cerimonia hanno voluto un rito ordinato: si sono così impadroniti di un simbolo, incasellando nel loro scenario. È la tipica ricerca «mafiosa» di legittimazioni nella tradizione religiosa. Il problema non è la «scomunica ai mafiosi», ma l'infragilimento di una Chiesa con poco spessore popolare:
un prete di fronte a un gruppo compatto che celebrava il suo lutto.
La politica sembra lontana, in un centro a uso dei turisti e dell'amministrazione. Ha bisogno del voto dei cittadini. Ma non interfaccia con loro, che votano sempre di meno. Fa impressione ricordare che, alle elezioni del 2013, il Pd con il segretario Bersani chiuse la campagna a Roma proprio nella piazza di Don Bosco. Dove sono i circoli?
Così, indifferente ai dibattiti sul Campidoglio, Roma si avvia a essere una grande periferia con gli aspetti critici delle megalopoli del mondo. Si aprono spazi per reti illegali, magari tra «il mondo di sotto» e quello «di sopra». Roma è città senza centro e - oggi come mai - senz'anima. Colpa della politica? Certo, ma anche di quanti faticano a fare una seria autocritica. Nel vuoto delle periferie, tra tentazioni di ribellismo e reti illegali, resta poco. Non così poco, però, per far ripartire un processo costituente di senso civico e di riflessione sulla capitale. L'episodio di giovedì scorso può essere l'occasione per superare un dibattito politico bloccato e guardare a Roma in modo nuovo, perché non si può accettarne ulteriormente il deterioramento
.


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