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1 Settembre 2015

I profughi del Cara di Mineo e quei giorni senza un domani

Le vite dei migranti sospese tra l'orrore del passato e l'incognita del futuro

 
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A Mineo la maggior parte dei migranti li incontri fuori dal reticolato, sulla strada nuda e vuota che passa accanto al centro di accoglienza e sembra portare al nulla verdeggiante degli aranceti. E sopra a tutto l'azzurro aspro cielo alcalino.
C'è la rete metallica e i militari che pattugliano con i gipponi l'interno del campo. E i migranti sono fuori, agri ma con gli occhi scuri infiammabilmente corrosivi. A guardare la sera che scende aspettando. E io chiedevo che aspettate? Mi guardavano muti: non sapevano che cosa dovesse accadere ín quella sera e in quella notte che valesse la pena di aspettare. Non c'era nessun segno di autorizzazioni liberatorie che schiudessero la via verso altri paradisi meno esigui e costrittivi di quel centro di accoglienza. Nessun annuncio, nessuna speranza che, il giorno dopo, la vita potesse cambiare.
Adesso lo so: era quell'attesa che faceva impazzire. Essa si librava sul campo come una rete ben più spessa di quella di vile e fragile metallo. E stringeva tutte le speranze e le paure.
Africa e Asia
Parlavi con i ragazzi: mezza Africa era lì e la Siria e l'Asia, una ricapitolazione dei luoghi dove gli uomini uccidono, sperperano, distruggono, si accampano oggi sul suolo degli altri e domani saranno travolti sulle proprie peste, dove di qua e di là creature innocenti piombano nella disperazione e nel dolore. Tutti ti parlavano non del futuro ma del passato e tornavano su questa sofferenza così semplice e così sicura. Il passato che è morto. Avrebbero voluto penetrare nel passato da cui erano così avventurosamente fuggiti come nell'avvenire, come nel cuore delle cose che vogliono amare.
Ma il ricordo è implacabile Esso è. E chi lo rivede soffre ed ha il rimorso di un tempo come un malfattore. Lo ammetto: mi è difficile giudicare, astrarmi: accade se hai vissuto con i migranti anche solo un attimo della loro vita, una particella infinitesimale della loro identità e della loro storia. L'idea della morte era dappertutto a Mineo. Sì. L'idea della morte. Perché quello che è spaventevole non è la morte, è l'idea della morte che rovina ogni attività proiettando come un'ombra sotterranea: l'idea della morte, la morte che vive...
Il vuoto
Sono tante in una vita anche tribolata le ore dolci che si rcordano: il mondo si restringe nel cerchio di chi ami, le agitate onde di fuori si spezzano alle sue dighe. Questo ai migranti è vietato. Cibo, vestiti, un tetto il campo di pallone, la sicurezza di non essere uccisi: a Mineo c'era tutto questo ma non la possibilità di avere una di quelle ore.
Mineo è il vuoto in cui la migrazione ti immerge. Da una parte quello che fu, guerre, rivoluzioni, fanatismi, miseria, che infine, almeno per chi vi ha trovato accoglienza, forse non sarà più. Sono arrivati, sono qui. Ma poi? Che c'è dopo? Ecco tutta la specie di tenebre che li hanno difesi contro la durata della felicità. Tutto si riduce a quel seppellimento e a quel buio che la vita vuol sfuggire.
Il domani semplicemente non c'e. Due anni forse più per l'autorizzazione, i ricorsi, in caso di primo rifiuto. I tribunali sempre più ingombri. Il domani non è quel ciabattare davanti alle belle case fresche e nuove del «residence delle arance». Non lo sciamare per i campi e i frutteti a cercare caporali a caccia di manodopera, non la quotidiana migrazione delle ragazze verso sozzi stradoni dove cercare clienti: dieci euro vieni, solo dieci euro. Nessun contatto con il mondo vivo, normale. Ti imbarbarisci, diventi un altro. La notte si espande da essi come da una ferita al loro fianco. Sì, è stupefacente che questo terribile delitto non sia accaduto prima. Il male è davvero il nulla, nato morto.
La sofferenza
A Mineo c'erano, ci sono, anche canaglie e violenti, boss e trafficanti sudici. Forse dovremmo porre accanto al migrante assassino un altro migrante, l'ucraino che è morto in un'altra città per sventare una rapina. «Io così come soffro, così dovresti pensarmi..» mi ha detto un maliano che ho portato da Mineo a Catania in auto. Parola grave che mi ha portato nel cuore della realtà. Il dolore umano è una cosa positiva e quella frase era bella per l'assoluta verità che mi arrecava: io così come soffro!
I migranti ci insegnano che è un errore credere che si possa essere felici in una calma perfetta, astratti come una formula. E' il nostro errore: ti facciamo entrare, ti cacciamo via, tutti buoni, tutti cattivi... I migranti sono fatti di troppa ombra e come di una forma di sofferenza. Se si togliesse tutto quello che fa male, che ci fa male, che cosa resterebbe? Hanno avuto scendendo dal barcone vivi un riverbero di felicità cancellato dall'ombra. Non dimenticare il bisogno insopprimibile di considerare la vita tutta insieme e giudicarla: allora diventa dolore, acquista un senso, l'unico senso possibile.
Parlo con amici a Catania, ragazzi della comunità di Sant' Egidio che assistono i migranti a Catania, a Palermo. Mi raccontano commossi le amicizie nate tra i profughi e gli anziani a cui hanno tenuto compagnia nella estate delle nostre ipocrite dimenticanze. Dei ragazzi arrivati dall'altra parte del mare che si fidanzano con ragazze siciliane.


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