Una corsa capace di abbattere ogni muro

Il messaggio
Una proposta per il futuro, magari già per l'edizione 101: partire da un Paese che non vuole immigrati, come l'Austria o l'Ungheria

 L'altra notte ho fatto un sogno: ho rivisto da bambino, con mio padre, l'emozionante passaggio dei ciclisti in una tappa del Giro d'Italia, al passo della Scoffera, nell'entroterra genovese. C'erano ancora Fausto Coppi e Gino Bartali, il piemontese con meno di 40 battiti cardiaci e il toscanaccio brontolone e generoso. Il primo mi incuriosiva per la sua libertà-ribelle, che avvertivo istintivamente. Le qualità umane del secondo le scoprii più tardi: Bartali aveva salvato numerosi ebrei, impedendo che finissero nei campi di sterminio nazisti. Coppi e Bartali erano l'attesa, il divertimento, il gusto della sfida e la gioia per il Giro, che allora, assieme al calcio, era tra gli unici appuntamenti dell'aggregazione sociale, della passione collettiva, della competizione, per gioire oppure per soffrire.
La statistica, quest'anno in cui si corre il 99° Giro d'Italia, ci ricorda che saranno ormai 12 volte che la storica corsa ciclistica nazionale compie la scelta meno autarchica e più generosa: partire dall'estero, che non dovrebbe essere più estero ma una nostra lontana periferia, come sostengono i sociologi più attenti. C'è chi ha scritto che amare vuol dire offrire una parte di noi stessi. Verissimo. Il Giro in questi anni lo ha fatto, quasi in silenzio, cominciando la corsa per tre volte (la terza sarà tra pochi giorni) dall'Olanda, poi dalla Repubblica di San Marino, dal Principato di Monaco, dal Belgio (due volte), dalla Città del Vaticano, da Atene, da Nizza, dalla Danimarca, e dal Regno Unito (Belfast, Irlanda del Nord). Una scelta che dimostra non soltanto l'incontaminato fascino del Giro, ma soprattutto il suo voler essere un appuntamento annuale cosmopolita, inclusivo, accogliente.
Candido Cannavò, compianto maestro di umanità e di giornalismo, sosteneva che il Giro d'Italia era in realtà la metafora della vita, dove si concentrano le qualità, i successi e le miserie di un'intera esistenza. La macchia del doping, il sospetto che a certi livelli non si possa evitare il ricorso ad aiuti artificiali (vero, Lance Armstrong?), la quasi certezza che gli artigli della malavita e delle scommesse abbiano ferito un grande campione come Eddy Merckx, e abbiano distrutto fino a ucciderlo il nostro indimenticabile «pirata» Marco Pantani. Però il desiderio incontenibile di voler sognare e di riaccendere la passione non si spegnerà mai. Magari immaginando che il protagonista del Giro che sta per partire, o almeno di qualche tappa magica, sia Vincenzo Nibali. O che si imponga la figura di un ciclista nato in un Paese poco generoso, un Paese che ha deciso di costruire muri e steccati per impedire l'arrivo dei migranti.
L'altra sera a Genova, presentando il suo libro «Periferie», il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi ha detto che l'Ungheria che non vuole immigrati sarà presto un ghetto di anziani. «La popolazione di quel Paese diventerà così esigua da avere un estremo bisogno di forza giovane. A quel punto, Budapest sarà costretta ad abbattere i muri, a chiedere scusa e a implorare l'arrivo di immigrati». Ecco, per il centesimo Giro, che cade il prossimo anno, magari no, perché la partenza sarà in Italia. Ma nel 2018 sarebbe straordinario farlo partire da uno dei Paesi europei più egoisti. Magari da oltre Brennero, da quell'Austria che, seguendo le chimere della destra più nazionalista ed estrema, chiude le porte ai profughi. Sarebbe una salutare lezione e, insieme, un messaggio di speranza. 


[ Antonio Ferrari ]