| 12 Febbraio 2010 |
La fatica di essere fratelli davvero |
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Il tratto tra il Vaticano e il Tempio degli ebrei di Roma è breve, ma è sembrato difficile da percorrere, prima della visita di Benedetto XVI. C’è chi ha fatto il paragone con Giovanni Paolo II al Tempio nel 1986: sembrò un trionfo. Che cosa è cambiato? Dal 1986, tutto è migliorato tra le due sponde del Tevere. Allora cadde il muro. Mi diceva un ebreo: «Ma te lo saresti immaginato il Papa in sinagoga trattare gli ebrei su un piede di uguaglianza?». Pensava a secoli di umiliazione nel ghetto. Oggi è diverso. Si sta realizzando un grande disegno. Appariva un sogno, dopo la guerra, ai pionieri come Jules Isaac, l’ebreo che chiese ai Papi la fine della predicazione del disprezzo, o a La Pira che voleva la riconciliazione tra i figli di Abramo.
La visita di Benedetto XVI è stata "storica". Non amo inflazionare questo aggettivo, ma qui va usato. Papa Ratzinger ha confermato che l’evento del 1986 non è un fatto isolato. Il Papa, dopo il Vaticano II, si deve misurare in spirito di amicizia con gli ebrei di Roma. Del resto Ratzinger è un teologo che ha dato un grandissimo contributo allo sviluppo del dialogo tra ebrei e cristiani. Parlando nel Tempio, ha guardato al futuro: «Rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della fraternità e della riconciliazione». I gesti del Papa sono stati eloquenti come le parole. Ha sostato davanti alla lapide che ricorda la razzia tedesca degli ebrei romani, il 16 ottobre 1943. Ha partecipato al dolore dell’Israele romano, fermandosi con i genitori del bambino ucciso dai terroristi palestinesi. Gli ebrei romani sono rimasti toccati. Le sue parole sulla Shoah in Italia non sono state formali, ma rivelano una comprensione sofferta di quegli eventi, «in cui molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i cattolici italiani... reagirono con coraggio». Il Papa ha abbracciato, sotto casa sua, il novantacinquenne rabbino Toaff (ricordato da Giovanni Paolo II nel suo testamento), simbolo vivente dell’amicizia ebraico-cristiana.
È un’immagine grande in un mondo, dove tante comunità si murano nella loro identità e nella paura dell’altro. Vivere insieme con l’altro diventa difficile. Cristiani ed ebrei sono segnati da profonda alterità. Ma tanto li lega: fratelli maggiori e fratelli minori. Il rabbino Di Segni ha ricordato come nella Bibbia «il rapporto tra fratelli comincia molto male. Caino uccide Abele». E ha aggiunto: «Se il nostro è un rapporto tra fratelli, c’è da chiedersi sinceramente a che punto siamo e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione». L’evento ha mostrato dove siamo: nella stagione della costruzione del ponte tra due mondi religiosi. È un tempo che può apparire meno entusiasmante e più laborioso, ma è decisivo. Cristiani ed ebrei non possono restare isolati. Qualcosa li lega in profondità, anche se diversi. Per questo si cercano e si visitano. Il loro rapporto è un paradigma di un mondo di pace, in cui nessuno può vivere senza l’altro.
Riccardi Andrea
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