Dopo tre settimane in cella Rimsha sta per tornare libera. Il rilascio della bimba pachistana arrestata per blasfemia, nonostante la giovane età (14 anni) e il grave disordine mentale (accertato dalle perizie mediche), si attendeva da almeno una settimana. Dall’inaspettata svolta nelle indagini che aveva portato al fermo di Khalid Jadoon Chishti, l’imam di Mehrabad, lo slum di Islamabad dove questa storia è cominciata il 16 agosto scorso. Jadoon avrebbe fabbricato le prove contro Rimsha, infilando fogli sacri nella busta di plastica piena di cenere e carta bruciata che la bambina portava con sé. Ora è lui a rischiare il carcere a vita per aver profanato il Corano, secondo quanto previsto dalle modifiche al codice penale introdotte negli anni Ottanta dal dittatore Zia ul Haq (per chi offende Maometto c’è la pena capitale).
E' forse la prima volta che un sospettato di blasfemia viene rilasciato su cauzione ed è anche la prima volta che il suo accusatore, musulmano, finisce dietro le sbarre. Basterà a cambiare l’uso velenoso dí quelle leggi nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani perché spesso discriminatorie nei confronti delle minoranze in un Paese a stragrande maggioranza musulmano (97% su 180 milioni di abitanti)? Non è così semplice: la questione è tanto legale quanto culturale, e le condizioni di estrema povertà e ignoranza in cui vivono rende molti cristiani (circa il 2% della popolazione) facili vittime dei tranelli di gruppi di fanatici. Come è accaduto a Rimsha, usata per stessa ammissione dell’imam per cacciare i cristiani da Mehrabad. Ora che la ragazzina è tornata libera, non tutte le famiglie che sono scappate nei giorni successivi al suo arresto potranno tornare nel quartiere (dove quasi tutti i musulmani difendono Chishti). Di sicuro non lei: dagli anni Ottanta a oggi decine di persone sono state linciate dalla folla dopo essere state assolte o prima di arrivare a processo per blasfemia.
Della sua protezione si occuperà il governo, spiega al telefono da Islamabad il ministro per l’Armonia nazionale Paul Bhatti, che nella veste privata di presidente della All Pakistan Minorities Alliance ha provveduto alla cauzione (circa un milione di rupie, oltre 8 mila euro) e aiuterà Rimsha e la sua famiglia a trovare una nuova casa. «Colgo l’occasione per ringraziare il vostro Paese della grande solidarietà ricevuta, in particolare l’Azione cattolica, la comunità di Sant’Egidio e il ministro Riccardo>, dice Bhatti, che è tornato in Pakistan dopo una vita in Italia per raccogliere l’eredità del fratello Shahbaz, assassinato nel marzo 2011 dagli estremisti islamici. Proprio per essersi esposto a favore dell’abolizione della legge sulla blasfemia, come il governatore musulmano del Punjab Salman Taseer, freddato a gennaio dello stesso anno. Dopo quelle due esecuzioni ravvicinate, di abolire le leggi sulla blasfemia in Pakistan non si parla quasi più. Ma per Bhatti quella di Rimsha è una brutta storia che si è trasformata in un «segnale incoraggiante», a partire dal «grande sostegno del governo e delle forze dell’ordine» sino alla collaborazione di quei musulmani che hanno denunciato Chishti o che hanno chiamato il ministro «per condividere idee su come prevenire l’uso discriminatorio della legge». La vicenda giudiziaria, però, non è finita. Ci vorranno settimane, se non mesi, perché l’inchiesta si concluda. Intanto il ministro dell’Interno ha ordinato il coinvolgimento dei massimi vertici della polizia e della magistratura nella fase finale delle indagini.