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20 November 2014

La relazione all'incontro di formazione permanente per il clero tenuto lo scorso 28 ottobre presso il Seminario Maggiore. Presenti il Cardinale Sepe, il Vescovo Ausiliare Angerami e il Vicario Episcopale Scatola

Fame di pane: date voi stessi da mangiare

 
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Ciascuno di noi ha una storia personale: problemi, dolori, ambizioni, delusioni e attese. Siamo un fascio di questi sentimenti di vita. Ciascuno di noi ha un'età. Ha momenti dolorosi. Vive assenza di prospettive. Sta contento. Ha una storia d'impegno sacerdotale. Potremmo parlarne a lungo. Ma oltre la mia e la vostra storia personale, c'è un fatto ulteriore: siamo riuniti insieme. I discorsi qui potrebbero essere non buoni, le attività poche, le persone non simpatiche. Ma l'evento è rivelatore di qualcosa al di là delle vicende personali. È rivelatore di una storia comune. Non siamo solo la somma delle nostre storie. C'è un'altra storia, che ci ingloba e che ci supera. Una storia che ci porta oltre noi stessi.
Esagerato? Forse, perché abbiamo perso questo senso di "storia comune", le nostre comunità girano attorno a se stesse; le nostre persone girano attorno a se stesse; le nostre parrocchie girano attorno a se stesse. Girano e non escono, anche se possono fare cose meravigliose. Il papa parla di «crisi dell'impegno comunitario» nel capitolo secondo della «Evangelii gaudium».
In fondo la crisi di tante famiglie è proprio nel fatto che non si riesce a vivere una storia comune: non la vivono marito e moglie, che pensano di essere più felici da soli, non la vivono con la nuova generazione, i figli, mettono in istituto gli anziani, perché non ce la si fa. La crisi della famiglia non è un fatto in sé, ma un fenomeno rivelatore della fatica a vivere una storia comune che si estende a tutta la società e diventa mentalità. Non si affronta la crisi della famiglia in modo isolato, ma pensando tutto il contesto dei legami tra la gente. Non si può salvare la famiglia come un'isola.
Questo individualismo o questa autoreferenzialità arriva a riguardare anche la religiosità. C'è una religiosità in espansione nel nostro secolo: la religiosità della prosperità, diffusa in tanti movimenti neoprotestanti, per cui offre in denaro, si riceve preghiera e si cerca il benessere, il successo, la guarigione, l'affermazione per sé, come se si trattasse di un mercato. Tale religiosità o teologia della prosperità, non tanto diffusa in Italia, ma molto nelle Americhe o in Africa, è un vero segno dei nostri tempi. È l'espressione di una mentalità mercantile per cui tutto si compra e tutto si vende, anche nel campo religioso. Questo mi sembra un vero segno dei nostri tempi: la mentalità mercantile generatrice di autoreferenzialità e individualismo...
La mentalità mercantile ha come soggetto l'individuo, il suo successo e il suo benessere, più che la comunità. Infatti, da un punto di vista del mercato, il vero soggetto è l'io, con il suo successo e la sia affermazione. La logica mercantile dissolve la comunità, affermando il valore dell'io, il destino dell'io, in competizione con altri io. Anzi i legami sembrano un peso che trattiene l'io nella sua sfida della vita. Al massimo ci si associa temporaneamente agli altri per un'impresa economica. La mentalità mercantile diventa la coscienza di molti, stretti dalla necessità, spinti dal conformismo (che è la vera religione del nostro tempo), attratti dalla ricerca di futuro per sé, come i giovani che sperano in un'occupazione.
In questa società, quello che veramente ha valore deve trovare un corrispettivo economico: se ha valore, deve avere un prezzo per comprarlo o venderlo. È il deprezzamento del gratuito, laddove il gratuito è il mondo degli affetti, è quello della terza età in cui non si produce e non si vive per guadagnare, è quello dei bambini che non producono e non entrano nel mercato. Per questo gli anziani valgono poco o niente, perché non producono. Ma il trattamento di un anziano è un vero indicatore della qualità, anzi della civiltà di una società. O anche di una famiglia, che non può avere felicità se scaccia i suoi anziani.
Siamo in un mondo virtuale, in cui le relazioni e le informazioni passano via internet e rifluiscono al soggetto io. Una giovane generazione cresce in un mondo di relazioni virtuali. Non bisogna certo disprezzare internet, ma abbiamo un'altra storia. C'è un valore nella fisicità dell'incontro con il suo realismo di persone che si vedono, si parlano, si conoscono. La Chiesa è realtà umana che si può toccare e vedere. Gesù ha detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 19,20). Nell'essere fisicamente e spiritualmente insieme c'è un grande valore che ci trascende. La Chiesa è etimologicamente assemblea, riunione, incontro umano.
Del resto, nella sua grande tradizione, la Chiesa ha parlato di un precetto domenicale (lo affermano i canoni 1242 e 1243 del Codice di Diritto canonico): che i fedeli partecipino fisicamente e spiritualmente nelle feste e la Domenica. Vuoi dire che per incontrare il Sig nore risorto, i fedeli debbono incontrarsi e essere fisicamente insieme. La spiritualità non è dísgíunta dalla fisicità. La Chiesa non è una realtà virtuale. Cristo risorto non appare in sogno ai discepoli, ma entra nel luogo dove stanno raccolti. Tutti abbiamo bisogno dì fratelli. Diceva un grande martire, Ignazio di Antiochia: «...se qualcuno non partecipa alla riunione dei fedeli, è un superbo che si è già giudicato da se stesso. ..» . Non ci salva da soli. La Chiesa lo ripete in questa stagione d'individualismo, in cui il vangelo sembra essere "Salva te stesso", quello che vanno a gridare sotto la croce a Gesù. E Gesù, proprio sulla croce, rifiuta di salvarsi da solo. Non ci si salva da soli. È il messaggio di tutte le Scritture: non ci si salva da soli. Siamo qui, perché crediamo che nessuno di noi si salva da solo. Ma anche perché crediamo che la gente della nostra diocesi, quelli vicini, quelli attenti, quelli lontani, quelli ostili... non si salvano da soli. Il prete è un segno di contraddizione, perché è l'uomo della comunità e del popolo di Dio, che mostra che non ci si salva da soli. Il prete si conforma a Cristo, che non salva se stesso.
È un'acquisizione fondamentale del Concilio. La «Lumen gentium» parla di "popolo di Dio". Afferma il Concilio: «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse». Con papa Francesco la parola "popolo" ritorna a scorrere nel nostro linguaggio: popolo di Dio, ma questo popolo non ha confini marcati, perché si allarga a tutto il popolo che vive nella nostra terra. Non esistono le dogane o le frontiere.
Essere popolo in una società marcatamente individualista. E anche a Napoli, una città così particolare. Un grande maestro di spiritualità del Novecento, Thomas Merton, intitolava un suo felice libro con parole significative: «Nessun uomo è un'isola». Sì, nessun uomo è un'isola e noi abbiamo un destino comune. Noi siamo un popolo. L'essere popolo della Chiesa è un segno anche per un tessuto sociale sconnesso e diviso. E popolo vuoi dire i sacerdoti, i religiosi, il vescovi, le persone attive, quelle meno attive, gli anziani, i bambini, quelli che trascinano e quelli che sono trascinati, quelli che stanno a guardare, quelli che seguono da lontano... E il sacerdote è in mezzo al popolo. Scrive papa Francesco: «Essere Chiesa significa essere popolo di Dio, in accordo con il grande progetto d'amore del Padre». C'è una forza in questo popolo, tanto che il papa ne parla come di una realtà infallibile quando crede. Tutto il resto, le istituzioni diocesane, le parrocchie, le associazioni, le opere, non sono che le ossatura di questo popolo, al suo servizio. Questo popolo ha una storia nella sua terra, ma è anche alla finestra del mondo: ogni uomo e ogni donna della sua terra gli interessa, ma anche è coinvolto dalle vicende lontane di popoli che non sono i nostri. Un illustre antropologo dice: «La gente sta tra isolamento e folla». La Chiesa non è folla, ma nemmeno gente isolata. È popolo:appartenere al popolo, mettersi dentro le dinamiche della vita, scomparire come centro, lavorare con gli altri e poi, e uso la parola del papa non la mia, «provare piacere di essere popolo». Piacere di essere popolo.
Questo popolo di Dio, questo noi largo, ha una storia. Una storia antica, che spesso è nascosta nel segreto della cattedrale. Ma anche una storia contemporanea. La Chiesa - come negli Atti degli Apostoli - cresce in una storia, mentre la Parola di Dio cresce in lei. Una comunità ha una storia. Eppure - proprio in questo tempo individualista e globalizzato - spesso le comunità rinunciano a scrivere una storia. Ma è possibile scrivere una storia quando si è una realtà piccola, quando si è sommersi dall'intricata vita della città, quando si è presi da tanti impegni? La globalizzazione, in un mondo grande e invadente, mostra il limite del potere dei singoli soggetti: nazionalli, locali. I grandi flussi economici - come vediamo in questo tempo di crisi - governano la realtà. Che cosa può un comune? Che può una regione? Ma ci accorgiamo che un paese, come l'Italia, è tanto meno rilevante che vent'anni fa. La globalizzazione allontana il potere dal territorio o da un palazzo da noi raggiungibile: le sue sorti sembrano in mani invisibili. Nemmeno un paese come l'Italia può scrivere una pagina di storia. Che conta?
Si capisce allora perché dalla politica si rifluisce nella vita individuale: tanto a livello politico non si può far nulla. Sono finite le grandi passioni politiche, che puntavano al cambiamento della società. Non ci sono i soldi, che si può fare? Eppure la Chiesa ha la presunzione che qualcosa si possa fare, che molto si possa fare. Questo è un segno controtendenza. Anacronistico? retaggio di un comunitarismo del passato? Il prete è una figura anacronistica? Il "noi" è la profezia del futuro. È il "noi" che si ritrova nella fede in Gesù, convinto che dove sono due o tre, lui è il mezzo a loro. E il prete e l'uomo del noi. Da questo "noi" scaturisce una storia. Insomma si può scrivere una storia per un popolo.
Questa è una profezia. È un'evidente contestazione a quella che definirei la cultura dell'impossibile che sembra avvolgerci e permeare la nostra mentalità. La fede non è una rassegnazione all'impossibile, quindi alla realtà così com'è. Gesù dice a un padre disperato, che aveva da sempre visto suo figlio prigioniero dell'epilessia, mentre erano falliti tutti i tentativi di guarirlo: «Tutto è possibile per chi crede» (Mc 9, 24). Insegna la forza della preghiera contro il muro dell'impossibile: «E tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete» (Mt 21,22). Il muro dell'impossibile crolla davanti al grido della preghiera. Gesù non congeda la folla che lo segue, come vorrebbero i discepoli che hanno calcolato che non ce la faranno a nutrirla. Anzi dice ai discepoli di farli sedere per gruppi. Ma soprattutto chiede loro: «Dategli voi stessi da mangiare» (Le 9,13). È possibile agire, oltre il muro dell'impossibile, come dice l'apostolo Paolo: «Tutto posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13).
Che la Chiesa possa scrivere una pagina del futuro è evidente anche nella storia recente. Rassegnati? Lo abbiamo visto nel 2013, che sembrava l'anno terribile della Chiesa, avvolta in una crisi profonda, tanto che questa realtà si era esemplificata in un fatto mai visto, le dimissioni di papa Benedetto XVI. Molti dicevano: la crisi è talmente profonda che il papa non ce la fa più! Ci volevano molte riforme e cambiamenti: la Chiesa ce l'avrebbe mai fatta a uscire dalla crisi? Invece con l'elezione di papa Francesco abbiamo visto una "primavera".
Nessuna vita nella Chiesa è un'isola: da Francesco - nella comunione - viene un grande messaggio su come vivere insieme questa nuova storia. Abbiamo davanti a noi il documento, «Evangelii gaudiunm»: la gioia del Vangelo, un titolo tratto da una frase di Paolo VI dalla «Evangeli nuntiandi», sulla gioia di comunicare il Vangelo. Come scrivere una nuova storia a partire dalla nostra realtà? Il papa dice: c'è un mondo da cambiare. Cito le sue parole: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualistica che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non si nutrono più i poveri, non si ascolta la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l'entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente, molti cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita».
Abbiamo vissuto l'intristimento dei cristiani, che è il contagio di una mentalità individualista. Diventa la rassegnazione all'impossibile. Tutto, molto diventa impossibile. Diventa impossibile lo scenario della vita quotidiana: i poveri, la gente che soffre, gli anziani. Che si può fare? Ma anche viene da chiedersi che si può fare nel grande scenario del mondo. Oggi, abbiamo di fronte in Medio Oriente uno scenario drammatico con la guerra in Iraq e in Siria. Penso al dolore dei cristiani perseguitati e di tanti che hanno dovuto lasciare le loro case sotto la minaccia del totalitarismo islamico. Le immagini di morte fanno parte del terrorismo mediatico, che vuole portarci sul terreno dello scontro. Qualche volta penso che cadiamo nella trappola dei terroristi.
Però va detto che la guerra è un segno dei nostri tempi: con il suo corteo di dolori, di miseria, di rifugiati che arrivano anche nel nostro paese. Ma che possiamo fare? Vorrei dire che innanzi tutto bisogna guardare serenamente il mondo vicino e lontano, pregando e leggendo i segni dei tempi, «l'interpretazione teologica della storia contemporanea», diceva Paolo VI. Per guardare serenamente il nostro quartiere, la nostra città, il mondo in guerra, siamo chiamati alla preghiera, a lottare nella preghiera per la pace.
Segni dei tempi di oggi? Già qualcosa abbiamo detto: l'individualismo come atteggiamento umano in un mondo globalizzato; la crisi delle forme di vita comune e della stessa famiglia; il mercato, supremo regolatore della politica e della vita; la guerra come realtà divenuta abituale; la crisi economica che rende la vita più difficile per molti e allarga il numero dei poveri; il senso di impotenza, anzi la cultura dell'impotenza. Guardiamo serenamente questo mondo vicino e lontano. È peggio di ieri? La mia generazione ha conosciuto anni difficili, quelli del terrorismo. Gli anziani hanno conosciuto la guerra. Non è peggio di ieri. È il nostro tempo. Non bisogna cedere alla tentazione di chiudersi nelle nostre istituzioni e di parlare solo dei problemi interni.
La Chiesa deve uscire da sé e dalle sue istituzioni. La Chiesa non sono le istituzioni diocesane o parrocchiali o associative. Dice papa Francesco: «Ripeto qui per tutta la Chiesa ciò che molte volte ho detto ai sacerdoti e laici di Buenos Aires:preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze... Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell'amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci
nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c'è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: "Voi stessi date loro da mangiare" (Mc 6,37)». Ed aggiunge: «Osiamo un po' di píù prendere l'iniziativa».
Uscire vuoi dire prendere l'iniziativa con passione, perché il mondo può cambiare, perché la gente manca del pane della Parola e di quello della tavola. Vuol dire prendere le distanze da quello che già si fa e già si è, oltre l'abitudine. Dice Isacco di Ninive, questo grande maestro spirituale che ci ricorda la storia dei cristiani orientali, proprio di una terra occupata dal cosiddetto califfato: «Temi le abitudini più dei nemici. Colui che alimenta un'abitudine è come uno che alimenta il fuoco». Ma qui c'è una grande domanda per noi che abbiamo già vissuto, che abbiamo un'impostazione e un metodo. Come è possibile cambiare? Volto, atteggiamento? È in fondo il problema che Nicodemo pone a Gesù: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse rientrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4).
Per questo vorrei che entrassimo con uno sguardo nuovo nella realtà; che ci chiedessimo come amare e fare di più; e se si deve fare nello stesso luogo e allo stesso modo. Non abbiate paura di cambiare! Uscire e incontrare qualcosa di diverso, tante volte fa nascere in noi uno spirito diverso. Noi possiamo scrivere una pagina nuova di storia, partendo dalle cose piccole che diventano cose grandi.
Il papa dice: ci vuole la missione del Vangelo. Ma che cos'è la missione? «Quando la Chiesa chiama all'impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale». Uscire, amare di più, incontrare, diventa una vera realizzazione personale. Abbiamo una grande possibilità di essere felici e di fare felici: la felicità non è qualcosa che si consuma da soli, ma è rendere gli altri felici.
Perché non imboccare con molto entusiasmo questa strada? È anche la nostra sfida a un mondo infelice, ma avaro e chiuso, perché cresciuto alla scuola del conformismo. Vite felici perché rendono felici possono sfidare gli altri intristiti, Questa è anche la profezia del sacerdote. Così dice papa Francesco: «Qui scopriamo un'altra legge profonda della realtà: la vita cresce, matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione alla fine è questo», cioè, donare la vita per la vita degli altri. Il gratuito è bello e dà gioia. Non vale solo quello che si vende e si compra. Anzi la gioia della vita è la gratuità: è un rapporto di amicizia, aiutare un anziano, un bambino che cresce, una vita che ritrova la speranza e tant'altro! Su questa strada - vorrei sottolinearlo - il primo incontro è con il povero. Finché i poveri restano fuori dalla vita non c'è felicità.
Qui, però, sulla nostra strada c'è stato un errore di prospettiva: i poveri non sono solo utenti delle nostre opere, ma sono parte della stessa vita della Chiesa, pur nel rispetto della loro identità. C'è stata troppa separazione tra poveri (e le opere o le istituzioni per loro) e la vita della Chiesa. Tra diaconia ai poveri e Eucarestia. Capisco che non si può essere sognatori. Ma l'incontro con i poveri non riguarda solo le organizzazioni specializzate. Ogni cristiano è chiamato ad avere un povero come amico e a divenire suo familiare. Ogni prete... Ogni comunità cristiana è chiamata a mettere i poveri nel plesso della sua vita familiare.
Penso agli anziani, che oggi vivono a lungo e sono abbandonati come mai. Penso agli istituti per anziani, spesso, quasi un'anticamera del cimitero, per anziani costretti a morire soli, dopo una vita per la famiglia e in famiglia. Per Francesco è un'eutanasia nascosta. Ma ogni comunità, ogni parrocchia, non dovrebbe, uscendo per strada, incontrare i suoi anziani? Gli anziani poveri, altre volte impoveriti dalla vecchiaia, scartati. Com'è importante suscitare un'alleanza tra giovani e anziani! Com'è bello che i bambini fin da piccoli siano educati a visitare gli anziani...
Ma i giovani? L'evangelizzazione? I poveri evangelizzano: parlano di una vita vissuta non per sé. I poveri e gli anziani aiutano la Chiesa con la loro preghiera: noi non abbiamo mai tempo per pregare! I poveri parlano di vita gratuita... Uscire vuol dire incontrare. Vuoi dire incontrare con occhi nuovi l'ambiente in cui si vive, senza rassegnarsi ai giudizi abituali e scontati sulla gente che ci circonda. Scoprire i poveri, gli anziani, altri aspetti del carattere della gente che si è già giudicata da molto tempo. Tante volte bisogna conoscere con occhi nuovi il mondo che si crede di conoscere da sempre. Ma per conoscere con occhi nuovi si deve anche avere un viso nuovo e uno sguardo diverso: «Di conseguenza - continua il papa - un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente la faccia da funerale». Uscire vuoi dire incontrare con un viso nuovo. Per realizzare un incontro vero ci vuole simpatia.
Per me, dobbiamo inaugurare una nuova stagione in mezzo alla gente, come popolo: una primavera chiede simpatia. Simpatia è parola decisiva per definire la spiritualità del Concilio. Con la «Evangeli gaudum» ritorna lo spirito dei Concilio. Troppo ci siamo lasciati andare all'antipatia o ci siamo nascosti dietro le mura dei nostri recinti, tanto gli altri sono così e niente li cambia. Ma la simpatia è decisiva.
Paolo VI alla fine del Concilio afferma:«L'antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha pervaso. La scoperta dei bisogni umani... ha assorbito l'attenzione del nostro Sinodo».
Dobbiamo chiedere allo Spirito Santo di darci una simpatia immensa, mentre usciamo dai nostri recinti. La missione si colloca in un atteggiamento di amicizia,  estroversa, verso gli altri. Sono rimasto colpito che questo grande missionario gesuita in Cina, che pone le premesse di un'inculturazione del Vangelo ìn una cultura così lontana, Matteo Ricci, scriva un libro sull'amicizia: «De amicizia». Non c'è missione senza amicizia.
Una vita estroversa, donata, amica, capace di simpatia, capace di compatire l'assenza di senso della vita degli altri, il loro dolore. Non si tratta di conquistare gli altri, ma di costruire uno spazio di amicizia in cui il Vangelo divenga attrattivo.
Mettiamoci a riflettere su noi stessi. Mettiamoci a riflettere su ogni opera: «La missione è il paradigma di ogni opera della Chiesa», cioè è lo sfondo, c è è l'asse portante, cioè è la struttura.
Missione non è chiudersi, ma uscire, uscire è il primo passo. Anche noi non usciamo, chiusi nei nostri circuiti. Uscire. Mi ha sempre colpito che le chiese si aprono quando noi dormiamo e quando rientriamo a casa sono chiuse. Gli orari delle chiese sono collegati ancora all'agricoltore che andava a dormire alle 8 di sera e che chiamava la funzione notturna quella delle 4 e mezzo! Che cosa vuoi dire uscire dal recinto della chiesa e della parrocchia? Significa la diaspora dei fedeli? Credo che significhi rafforzare ancora di più il legame, tra gente che si sente amica e in missione. Ma ci si deve volgere indietro, quando si esce, e guardare la chiesa. Che cos'è la chiesa? Non è prima di tutto un luogo di attività, un recinto dentro cui si può essere cristiani. Se la parrocchia significa la stabilità della Chiesa tra la gente di un territorio, la sua chiesa vuol dire un santuario dove, in un mondo confuso, si può andare a pregare. La gente ha più bisogno di pregare di quanto noi crediamo. Dobbiamo aiutarla a trovare uno spazio di silenzio. Ma anche comprendere le domande di preghiera per i malati e la malattia...
Occorre quella che Francesco chiama una conversione pastorale. Che è una vera conversione personale a una vita in mezzo alla gente. Quindi è ribellarsi alla cultura dell'impossibile, non soggiacere alla logica del mercato, non accettare di vivere senza un destino. Questa conversione missionaria parte da me. «La vita ci si complica sempre, meravigliosamente, e viviamo un'intensa esperienza di essere popolo». «La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, non è un momento tra i tanti della mia esistenza, è qualcosa che non posso sradicare dal mio essere. Non voglio distruggermi: io sono una missione su questa terra e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere se stessi come marcati a fuoco da questa missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare».
Il papa è un grande missionario, è essenzialmente un missionario: parlando del Vangelo ha stabilito un'alleanza con il popolo. Da giovane voleva andare missionario in Giappone, non è riuscito ad andarci, ma poi è stato accontentato! La missione non è proselitismo: è cambiare il mondo attraverso il Vangelo. Questo è scrivere una nuova pagina della storia: cambiare il mondo, cominciando dal contatto uno dopo l'altro, consolando e aiutando un povero, visitando un anziano, creando una famiglia tra estranei con la solidarietà, illuminando i cuori tristi con la speranza della fede.
Nessuno vuole più cambiare il mondo. Niente è possibile. Ma noi cristiani non siamo rassegnati: con le armi povere del Vangelo e della fede crediamo di poter rendere migliore il nostro quartiere, la nostra terra, la nostra città. E anche di fronte agli scenari conflittuali del mondo, seppure lontani e senza potere, possiamo pregare.
La gente non può vedere immagini terribili di morte e violenza e non ricevere una parola dalla Chiesa. Invitiamo a pregare per la pace in un paese. La gente viene, perché sente il bisogno di ricordare e capire. E la preghiera è una grande forza di pace. Diceva il grande martire Ignazio dí Antiochia: «...quando infatti vi riunite, crollano le forze di Satana e i suoi flagelli si dissolvono nella concordia che vi insegna la fede».
Nel 2002 Andrea Santoro, un prete in missione, scriveva dalla Turchia: «In questi giorni ci sono spettacoli di ferocia inumana, ma l'alternativa alla ferocia è la carità. La ferocia genera altra ferocia, la carità riconcilia e genera altra carità. La ferocia non teme di uccidere, la carità non teme di dare la vita, per arginare la ferocia occorre l'intelligenza della carità e la mobilitazione delle risorse profonde».
Uscire, sentirsi in missione, costruire una rete di simpatia, riempie il mondo di energie di amore. Vivere per gli altri è già un argine alla ferocia. Quello che avviene vicino contagia anche il mondo lontano. E viceversa. La mobilitazione delle nostre risorse profonde migliora l'ecologia spirituale del mondo intero. Chi cambia un uomo, un quartiere, chi rende felice un anziano e un povero, salva il mondo!


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