Nonna Segre ai giovani «Il coraggio di raccontare i viaggi della morte»

Dopo 45 anni di silenzio sull'orrore ha trovato la forza di raccontare e grazie a lei e alla Comunità di Sant'Egidio Milano ha recuperato la memoria del binario 21, da dove partivano i convogli di prigionieri diretti verso i lager nazisti

Da ventisei anni Liliana Segre incontra gli studenti. «Vi parlo come una nonna», non come «testimone» della Shoah, dice mentre affida loro frammenti dolorosi di storia del nostro Paese. Così ieri, dal palco del teatro Arcimboldi, s'è rivolta a 2.400 giovanissimi. E ha spiegato loro che fu la nascita del primo nipotino a «sciogliere qualcosa dentro di me» e a permetterle di trovare la forza e le parole per raccontare la tragedia della deportazione nei campi di sterminio.
Aveva 13 anni quando, il 30 gennaio del 1944, fu caricata «a calci e pugni su un vagone merci», dopo quaranta giorni di prigionia («Solo per la colpa di essere nata») nel carcere San Vittore, e deportata con il padre ad Auschwitz. «Ero un ectoplasma, non soffrivo più la fame, non piangevo più», quando nell'aprile del 1945 ritrovò la libertà. Per 45 anni, dopo essere tornata da quell'inferno, aveva taciuto, soffocato ricordi e dolore.
E' grazie a lei e alla Comunità di Sant'Egidio se Milano ha recuperato la memoria del Binario 21 della Stazione centrale. Da qui, tra il 6 dicembre 1943 e Il 31 gennaio 1945, partirono i convogli della morte carichi di prigionieri ebrei, detenuti politici, partigiani, lavoratori antifascisti, diretti ai campi di sterminio nazisti.
Ad ascoltarla ci sono i rappresentanti delle istituzioni, l'assessore alla Cultura della regione, Cappellini, la vicesindaco Balzani, il presidente della Fondazione per il memoriale della Shoah, Ferruccio de Bortoli, che spiega agli studenti: «Quando ero studente non sapevo che esistesse il Binario 21. Ce lo eravamo completamente dimenticato e pensate che schiaffo alla memoria si diede con quell'oblio».
Liliana Segre racconta ai ragazzi che le domandano come fu tornare a casa dopo la prigionia: «La cella numero 202 del carcere San Vittore fu l'ultima casina che io ebbi con mio papà». Il suo racconto riempie l'immenso teatro, entra nel cuore di una platea che non è mai stata così silenziosa. E che si lascia andare in un lungo applauso, carico di angoscia e commozione, quando Liliana confida di avere avuto la possibilità di «vendetta».
Accadde infatti che lo spietato comandante del campo, all'arrivo dei soldati russi, si liberò della divisa e della pistola. «Pensai, ora mi chino, prendo la pistola e gli sparo. Fu un attimo importante che dura fino ad ora. Ho scelto la vita e da quel momento sono stata quella donna libera e donna di pace che sono ancora adesso».
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[ Paola D'Amico ]