La Sicilia si salva con gli immigrati

A Palermo, Catania e nei paesi dell’entroterra l’arrivo di cittadini stranieri è considerato un’opportunità. E la loro presenza fa rivivere quartieri e paesi da tempo abbandonati. Visti dagli altri Eric Jozsef, Libération, Francia “Se mi chiedete quanti immigrati ci sono a Palermo non vi rispondo 60, 70 o 80mila. Chiunque arrivi a Palermo è palermitano”

Nel suo ufficio a Palazzo delle aquile, che occupa quasi senza interruzione da più di un quarto di secolo, il sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando ostenta la sua determinazione. Il democristiano di sinistra che ha trasformato in profondità Palermo opponendosi alla mafia e scommettendo sul turismo – lo strabiliante centro storico arabo-normanno è stato dichiarato “patrimonio mondiale dell’umanità” nel 2015 – rivendica la sua politica di accoglienza. Orlando dichiara di perseguire “un futuro dai due nomi: Google e Ali l’immigrato. Google esprime la connessione virtuale, e Palermo è oggi la città più cablata e informatizzata del Mediterraneo. Ali l’immigrato rappresenta la connessione umana. Noi vogliamo una città accogliente e moderna”.
Nonostante la crisi e la disoccupazione, la Sicilia e Palermo sfatano il pregiudizio in base al quale l’arrivo di tanti stranieri, combinato con le diicoltà economiche, rappresenterebbe una bomba politica e sociale. “Per un politico il consenso si misura al momento del voto. A giugno sono stato eletto al primo turno”, sottolinea Orlando. “Ho ottenuto più voti di cinque anni fa. Credo che i migranti ci facciano rilettere su ciò che siamo in quanto esseri umani”.

Corsi di italiano per stranieri, accoglienza di minori non accompagnati, centri per richiedenti asilo. Il comune di Palermo moltiplica le iniziative per facilitare l’integrazione. Dall’altra parte dell’isola, sulla costa orientale della Sicilia, il porto di Catania fa fronte da anni agli sbarchi dei migranti. “Soprattutto dalla seconda metà del 2013”, precisa il viceprefetto Tommaso Mondello. Con la chiusura della rotta balcanica, ormai la maggior parte delle persone che lasciano il sud del Mediterraneo passa per il canale di Sicilia. Gli occupanti delle imbarcazioni quasi sempre sono soccorsi al largo e condotti direttamente nei porti di Pozzallo, Augusta o Catania senza passare per Lampedusa, come invece succedeva in passato. “Catania è ormai la principale porta d’ingresso in Europa. Il porto è più grande, perciò più pratico per gli sbarchi”, sottolinea Mondello.
Amministratori coraggiosi
In tre anni quasi 500mila persone sono arrivate in Italia via mare. Circa 120mila solo nel 2017. La maggior parte tenta di proseguire il viaggio verso l’Europa del nord o viene trasferita in altre regioni italiane, ma decine di migliaia di persone restano ogni anno in Sicilia, in attesa di un permesso di soggiorno o del riconoscimento dello status di rifugiato. “Il sistema d’accoglienza dei migranti nel porto è ben rodato”, garantisce il viceprefetto. “Ci mettiamo in contatto con la guardia costiera per conoscere l’orario d’arrivo. La prefettura avverte tutti i soggetti che partecipano allo sbarco: polizia, autorità comunale, protezione civile, servizi sociali, Croce rossa e organizzazioni umanitarie”.
“Dal 10 agosto 2013, data del primo sbarco a Catania, la nostra vita è cambiata”, sottolinea Rosaria, una volontaria della comunità cattolica di Sant’Egidio. “Quel giorno un’imbarcazione è arrivata vicinissima alla spiaggia. A bordo c’erano alcuni ragazzi. A pochi metri dalla costa si sono tuffati e alcuni sono annegati. Quella vicenda ha colpito la città”. Angela Pascarella, anche lei di Sant’Egidio, descrive la mobilitazione della popolazione: “Quel 10 agosto abbiamo cominciato a mandare messaggi. Chiedevamo coperte, asciugamani e cibo. Qui era tutto pieno”, ricorda indicando la grande sala dell’associazione al centro di Catania, a due passi dalla cattedrale di Sant’Agata. “Tutti ci hanno portato qualcosa”. Gaetano è un funzionario sessantenne che viene spesso a dare una mano alla mensa dei poveri nei pressi della stazione di Catania. “In passato siamo stati emigrati e sappiamo cosa vuol dire essere accolti in un paese straniero. Perciò sentiamo il bisogno di aiutare. Per noi è normale. Non siamo come alcuni paesi dell’Europa del nord, che contano con una calcolatrice quante persone devono o non devono far entrare”. (.....)


[ u.gim. ]