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La Vita del Popolo (Treviso)

7 April 2011

Intervista a Marco Impagliazzo: "Italia, guarda ai tempi lunghi"

Il presidente della Comunità di Trastevere legge i 150 anni del nostro paese e parla di immigrazione, pace, Mediterraneo

 
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Ai sacerdoti (in mattinata, nell’incontro di formazione del clero) ed ai laici della diocesi di Treviso (in serata), giovedì 7 aprile ha parlato, da storico, del rapporto tra Chiesa e Stato in questi 150 anni. Ma il suo “laboratorio” è niente meno che la Comunità S. Egidio, la cosiddetta “Onu di Trastevere” impegnata sui fronti della pace, del dialogo e della solidarietà in tutto il mondo. Marco Impagliazzo è,
infatti, docente di Storia contemporanea all’Università per stranieri di Perugia e presidente di S. Egidio. In occasione della sua presenza a Treviso l’abbiamo intervistato, partendo dal 150° dell’unità d’Itali a, ma parlando anche dei fatti d’attualità che stanno sconvolgendo il Mediterraneo.

Prof. Impagliazzo, che bilancio possiamo trarre del rapporto tra Chiesa e Stato in questi 150 anni?

E’ stato un rapporto molto complesso. Sono 150 anni di storia di un paese il cui popolo è cattolico. Ma non sempre la classe dirigente di questo Paese è stata cattolica, soprattutto all’inizio. La classe dirigente liberale vedeva e voleva la Chiesa confinata all’interno del suo mondo e quindi il rapporto tra Chiesa e Stato ha avuto dei problemi, soprattutto in questi primi anni di unità del paese, perché si accusavano i cattolici di non aver partecipato al processo risorgimentale.

Non è stato così, però...

Noi tutti sappiamo che risorgimento vuol dire risurrezione e si deve dire che i cattolici hanno partecipato in realtà partecipato al processo di unificazione ed hanno dato il loro contributo. Dopo la breccia di porta Pia la figura del Papa è emersa come una figura molto popolare per i cattolici d’Italia. Ci fu un inserimento molto lento ma reale nella vita politica italiana. Il momento di svolta fu la nascita del Partito popolare di Sturzo, preparato però da un movimento cattolico, di cui Toniolo è esponente di punta, che lavorò molto alla base per riconciliare questo nostro paese che ancora soffre di alcune iniziali divisioni, pensiamo al divario tra nord e sud o al problema della criminalità organizzata. Icattolici, a partire dal Ppi si inserirono nella vita politica e nel secondo dopo guerra lo hanno governato con la Dc.

Perché è importante la lettera che il Papa ha inviato agli italiani in occasione della ricorrenza del 17 marzo?


Il problema che la Chiesa aveva all’epoca era quello di contrastare la rivoluzione e le conseguenze della rivoluzione francese, con quello che aveva portato di depauperamento della vita della Chiesa, il  entativo di fare una religione civile del clero, indebolire la chiesa in ogni modo. Pio IX si trovava nella situazione di difendere il bene della Chiesa. Ma non era una difesa per andare contro il bene dell’Italia, non si schierò nella guerra contro l’Austria perché non voleva il combattimento tra truppe cattoliche ed emerse la figura del padre comune. Anche Benedetto XVI richiama il grande contributo dei cattolici, soprattutto a livello culturale, perché i cattolici rappresentano quell’aspetto della vita nazionale che richiamano le radici cristiane del nostro paese.

Andiamo verso l’attualità… Possiamo dire che il contributo dei cattolici alla vita del paese ha conosciuto tempi migliori?

I tempi storici ci richiamano al fatto che le situazioni passate non vanno bene nelle situazioni del presente. La Dc era diventata il partito di riferimento per i cattolici, anche in accordo con la gerarchia. Con la fine della Dc, per certi versi purtroppo anche ingloriosa, si è passati alla dispersione, alla fine dell’unità politica. Oggi i cattolici sono presenti nelle diverse formazioni, seppure soffrano di qua e di là - nel centrodestra e nel centrosinistra - per alcune posizioni che non condividono. Io penso che il contributo sia quello di essere lievito, di ricordare i principi non negoziabili della vita, della solidarietà, i grandi valori sociali dei quali il mondo cattolico è portatore.

Tra questi valori ci sono anche l’accoglienza e la promozione della pace. Come pensa che il mondo cattolico debba porsi di fronte ai cambiamenti che interessano il Mediterraneo e all’arrivo di numerosi immigrati?

Tra pochi giorni sarà beatificato Giovanni Paolo II, che iniziò il pontificato gridando: “Non abbiate paura”. Io penso che questo grido sia vero ancora oggi e riguardi anche il rapporto con il mondo che ci circonda. Pensiamo all’immigrazione: se la si legge solo con l’occhio alla cronaca non si risolverà mai il problema, occorre guardare ai tempi lunghi, mettersi di fronte ad un fenomeno epocale, che non può essere arrestato con qualche legge o con qualche nave che sorveglia il Mediterraneo, perché c’è una voglia di libertà insopprimibile. Lo si vede dai poveri migranti annegati, che vengono dalla Somalia, dall’Eritrea... non solo da Tunisia e Libia. Noi dobbiamo ribadire che la solidarietà è un punto di non ritorno. In secondo luogo, dobbiamo tener conto che il nostro Paese continua ad aver bisogno degli immigrati, che sono giovani: una grande forza che si immette in un paese che vive una profonda crisi demografica. Il problema è come farlo.

Già come?

Dobbiamo partire da un’identità forte, che non significa identità contrapposta. Dobbiamo vivere in una casa comune e non tante case separate, come se vivessimo in un albergo. Oggi la politica è schiacciata sul presente, io chiamo questo fenomeno “presentismo”, e non è in grado di vedere i fenomeni di lunga durata.

Come l’Italia può porsi, come paese, di fronte a quanto sta accadendo nel Mediterraneo?

Siamo tornati ad essere un paese importante, per una nostra posizione geografica. L’Africa, sta di fronte all’Europa, è un continente che soffre, dobbiamo creare un nuovo sentimento euro-africano, che consiste nell’aiutare gli africani nei loro paesi, unico modo per frenare le migrazioni. Lo vediamo anche con Sant’Egidio: laddove siamo presenti, non abbiamo gente che vuole scappare.

Ci siamo ritrovati coinvolti in un conflitto incerto. Come vede la situazione in Libia?

Ogni guerra, diceva Giovanni Paolo II, è un’avventura senza ritorno. E’ chiaro che una qualche forma di intervento era utile qualche settimana prima, lì c’era un dittatore che stava sterminando un popolo e bisognava porsi il problema. Oggi vediamo che le operazioni chirurgiche nella guerra non esistono. Ci sono tanti civili che soffrono. La parola deve tornare alla politica e alla diplomazia, altrimenti finiremo nel pantano libico, come è accaduto in altri paesi.

La Comunità di S. Egidio è impegnata nel dialogo tra le religioni. Ma intanto molti cristiani continuano ad essere perseguitati e uccisi...

I cristiani perseguitati sono molti, spesso in paesi musulmani. Credo che la via del dialogo sia l’unica che potrà garantire la salvezza di queste comunità. Ho partecipato al sinodo dei cristiani del Medio oriente. Dai vescovi veniva un appello ai cristiani del mondo di solidarizzare con loro, ma non con la forza delle armi, com’è accaduto in Iraq, dove le comunità cristiane oggi emigrano perché sono identificate con la guerra americana. Non si possono proteggere i cristiani con le armi, ma in una via di dialogo, in una solidarietà concreta, in un aiuto alle famiglie. La testimonianza di Paul Bhatti, che da Treviso è tornato in Pakistan e ha preso il posto del fratello ucciso, mi ha molto commosso. Sa a quali pericoli va incontro, ma tiene alta la fiaccola della convivenza e del dialogo. E’ venuto a Roma
assieme all’imam di Lahore, e anche questo imam diceva: vogliamo vivere con i cristiani. Molti musulmani moderati si pongono il problema di avere dei cristiani a fianco, perché sono sfidati dal loro stesso fondamentalismo. Per questo la via del dialogo è obbligata e sono molto contento che il papa abbia riconvocato le religioni ad Assisi nel 25° di quella giornata profetica e straordinaria che volle Giovanni Paolo II.


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