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10 Juli 2012

Quarant'anni fa si spegneva Athenagoras

Grandi uomini per l'ecumenismo

 
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Quaranta anni fa si spegneva a Istanbul il patriarca ecumenico Athenagoras, una delle più grandi figure del mondo ortodosso contemporaneo. Lo storico abbraccio con Paolo VI, a Gerusalemme, nell'Epifania del 1964, resta una "icona" del Concilio Vaticano II e pietra miliare nei rapporti tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente. La visione di unità dei cristiani e del genere umano del patriarca è tutt'altro che logorata, anzi appare attuale in un tempo che sembra fuggire da passioni e sogni collettivi, segnato dalla globalizzazione e, al tempo stesso, da mille localismi in lotta fra loro.

Cristiano balcanico, discepolo dell'universalismo del patriarcato ecumenico, e figlio dell'impero ottomano- dove la molteplicità era una regola del vivere quotidiano- Athenagoras vive la crisi della coabitazione, assiste all'affermazione dei nazionalismi, alle due guerre mondiali, ai primi esperimenti di "pulizia etnica". Ma non accetta la riduzione dell'identità cristiana negli stretti confini di un'etnia o di una nazione, né la riduzione dell'altro a "nemico". «Sin dalla mia infanzia – spiega - nell'impero ottomano, ho fatto esperienza della fratellanza dei popoli. Tutti i popoli sono buoni, per poco che si provi a rispettarli e ad amarli. E la paura a render li crudeli».

L’esperienza dolorosa della guerra matura in lui «una filosofia dell'incontro, che mi fa amare tanto il dialogo con gli uomini quanto il singolo uomo perché dietro al miracolo della sua esistenza intravedo Dio». La vita lo porta su scenari globali- dai Balcani in Grecia, poi negli Stati Uniti, fino alla moderna Turchia- maturando in lui un gusto per l'incontro con l'altro che si fa "nostalgia" per l'unità originaria dei cristiani, condizione indispensabile per la realizzazione della pace. Un'espressione che gli è cara- «Chiese sorelle, popoli fratelli»- sembra esprimere, ben prima dell'epoca della globalizzazione, la sua profonda consapevolezza di quanto la vita di uomini e popoli sia interconnessa:

«Il problema del Terzo Mondo -dice- comincia all'interno delle società facoltose. Tutta la terra soffre dello stesso male». Ma anche di quanto siano i cristiani il necessario "collante" dell'unità e della pace nel mondo: il ritorno all'unità della Chiesa indivisa, afferma, è ananke, cioè necessità e destino. La riconosce vicina, quando saluta l'elezione di papa Roncalli, con la celebre citazione evangelica: «Venne un uomo, il suo nome era Giovanni» e con la convocazione del Concilio Vaticano II, che inaugura una primavera ecumenica, con il patriarca protagonista del "dialogo della carità".

Gli ultimi anni sono segnati dalla sofferenza, per l'aggravarsi delle difficoltà per i cristiani in Oriente e il timore che il riavvicinamento tra le Chiese proceda con lentezza, mentre legge nei segni dei tempi una domanda di unità e di speranza. Scrive nel 1968: «Una crisi universale si manifesta oggi, i giovani si ribellano. Noi discutiamo di azzimi, mentre altri profondi fermenti sconvolgono interi mondi. La scienza studia come prolungare la vita, ma la morte, sempre libera, miete impietosa vittime in Asia e in Africa. Dov'è il Cristo salvatore? Nel dividerci l'uno dall'altro lo abbiamo cacciato». Nonostante lo struggimento per un mondo che emargina Dio, l'anziano patriarca, come il vecchio del salmo, non smette di sperare. Sa che «solo la forza interiore può rispondere ai problemi della nostra epoca».

E alla vigilia della morte esorta il giovane Bartholomeos, attuale patriarca ecumenico: «Siamo arrivati ad un certo punto e ci siamo fermati. C'è bisogno di passi generosi e decisivi, per procedere ancora». La sua eredità oggi, a 40 anni dalla sua morte, è ancora tutta racchiusa nelle parole che pronunciò a Gerusalemme, dopo quello storico abbraccio con Paolo VI: «Se sapremo restare grandi, l'unione si farà».


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