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6 Settembre 2015 17:00 | Palazzo dei Congressi - Pallati i Kongreseve

Contributo di David Rosen Ex Rabbino Capo di Irlanda, AJC, Israele



David Rosen


Già Rabbino Capo di Irlanda, AJC, Israele

Oggi forse più che mai possiamo constatare come la religione possa diventare una benedizione e come possa essere una maledizione; come la religione può essere ispirazione per promuovere il bene dell'umanità e come possa essere uno strumento di violenza e di odio.

Oggi, in realtà, le divisioni tra religioni sono di gran lunga minori di quelle che esistono all'interno delle religioni stesse – tra coloro che, da un lato, sfruttano la religione per creare avversità, e coloro che, dall'altro lato, si fanno ispirare dalla propria tradizione religiosa per creare legami di amicizia verso il prossimo, che esso appartenga o no alla propria comunità.

Nonostante che oggi, più che mai, vediamo atrocità terribili perpetrate nel nome della religione, chi tra di noi è coinvolto in impegni interreligiosi è testimone del fatto che nella storia dell'umanità mai come oggi vi è stata tanta comunicazione, collaborazione e cooperazione tra persone di tante diverse origini religiose, per il bene della società nel suo insieme.

I saggi del Talmud (trattato Gittin) quasi duemila anni fa hanno dichiarato che la Torah nel suo insieme – l'ebraismo nel suo insieme – è al servizio della pace. Il testo si sviluppa descrivendo “le vie della pace”. Queste ultime ci chiedono, per esempio, di “visitare gli ammalati degli altro, persino quelli dei pagani, di seppellire i loro morti insieme ai nostri, e di provvedere ai loro poveri come ai nostri – il tutto a servizio delle “vie della pace”.

Maimonide, nel suo trattato di etica ebraica (Yad Hahazakah, "Legge dei re," cap. I0, sez. 1l),  cita questo testo e indica due passi della Scrittura che ne danno forza:
“poiché sta scritto: 'la sua tenerezza si espande su tutte le creature' (Ps. 145, 9), e sta scritto: 'le sue vie (della Torah) sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono alla pace' (Pr 3, 17)”.
Il secondo di questi passi, tratto dal libro dei proverbi, viene anche citato nel testo talmudico originale. Ciò è una conferma del fatto che il fine della religione è la pace, non solo tra i propri simili, ma soprattutto con coloro che sono diversi da noi; implica anche che, se non promuoviamo la pace con le nostre azioni, allora non siamo fedeli alla nostra religione.

Tuttavia, perché Maimonide aggiunge anche il verso tratto dal salmo 145, “ la sua tenerezza si espande su tutte le creature”?
Maimonide si riferisce a quella che è la radice teologica di un comportamento retto, e cioè l'insegnamento, che troviamo nella Torah, dell'Imitatio Dei (Lev 19, 1), dell'essere “legati al Signore” (Dt 10,20) e di “camminare nelle sue vie” (Dt 13, 5).
La tradizione ebraica comprende queste esortazioni come l'invito ad imitare – nella misura delle capacità umane – gli attributi divini della misericordia, della bontà e dell'amore, della giustizia, della veridicità e del perdono (cft Es 34,6). Con le parole di Abba Shaul: “Sii misericordioso e compassionevole come Egli è misericordioso e compassionevole” (Mekhilta, Cantico 3).
Similmente, come recita il Talmud, “Così come il Signore veste chi è nudo, come ha vestito Adamo ed Eva, così anche tu vesti chi è nudo, come ha visitato chi era malato, come ha fatto con Abramo, così anche tu visita gli ammalati! Così come il Signore ha consolato chi era nel lutto, come ha fatto con Isacco, così anche tu consola chi è nel lutto! Così come il Signore ha seppellito  i morti, come ha fatto con Mosè, così anche tu seppellisci i morti! (Trattato Sotah, 13a).

In tal senso Maimonide ci ricorda che, allo stesso modo in cui “la Sua tenerezza si estende su tutte le creature”, così noi, imitandolo, dobbiamo essere compassionevoli verso tutti, in particolare (come la Torah stessa sottolinea), verso chi è vulnerabile, e non i vulnerabili che fanno parte della nostra comunità - come il povero, l'orfano e la vedova - , ma anche e in modo particolare lo straniero, che proviene da altre comunità. E’ il nostro modo di comportarci verso coloro che sono diversi da noi la vera prova da cui si vede se percorriamo o no i sentieri della pace, e tali sentieri della pace sono le vie di Dio.

Siamo veramente religiosi solo quando camminiamo per le sue vie, quando percorriamo questi sentieri della pace.

In tal senso coloro che sfruttano la religione per giustificare l’isolamento degli altri, l'odio, l'ostilità e la violenza non amano veramente Dio. Essi sono, in ultima analisi, nemici di Dio e della religione, e perseguono piani satanici.

Per le tradizioni ebraica, cristiana e musulmana, è Abramo il prototipo dell'uomo dell'etica monoteista che cammina nelle vie di Dio.

In Genesi 18, 19, Dio si riferisce ad Abramo dicendo: “Infatti io l'ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto”. Infatti la nostra tradizione si riferisce ad Abramo come “l'amico di Dio”, o, più precisamente, con le parole del profeta Isaia (41, 8) “Abramo che mi ama” - Abramo, colui che ama Dio.
Abramo rappresenta il prerequisito essenziale per una pace vera, lo spirito dell'ospitalità.

Genesi 18, 1 descrive Abramo che “sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno”, e che scrutava l’orizzonte per vedere se ci fossero viandanti a cui offrire ospitalità, e che ad un tratto “alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”. Successivamente Abramo scopre che erano messaggeri divini, angeli, venuti ad informarlo della divina benedizione di una discendenza.

Due di questi messaggeri vanno a Sodoma per avvertire la città dell'imminente distruzione e per salvare Lot e la sua famiglia. Il capitolo successivo inizia con le parole “e i due angeli arrivarono a Sodoma”. Ad un maestro chassidico venne chiesto perché vengono chiamati uomini quando parlano con Abramo mentre quando vanno a Sodoma ci si riferisce a loro come angeli.
La risposta del rabbino fu che il motivo è che non vi era necessità per gli angeli di rivelarsi come tali nei confronti di Abramo, perché questi vedeva un angelo in ogni persona – ogni essere umano creato ad immagine di Dio.

L'ospitalità esprime un’apertura di dialogo, con la quale cominciamo ad accogliere l'altro.
Ciò ovviamente include essere capaci di dare risposta al dolore ed alla domanda di giustizia e di sicurezza del nostro prossimo. Significa soprattutto rispettare la sua dignità umana.

Aprire un dialogo è particolarmente importante per chi è parte di un popolo di credenti, e nel nome della rispettiva fede. E' con ciò che possiamo superare l'isolamento reciproco dal quale siamo afflitti, ed essere fedeli ai valori ed all'esempio di Abramo nostro Padre comune.

La comunità di Sant'Egidio non solo tiene alta la fiaccola dello spirito di Assisi, è anche la concretizzazione dell'anelito religioso per la pace, attraverso il suo lavoro con chi è vulnerabile e con chi è nel bisogno, lo straniero ed il viandante. Attraverso lo spirito di ospitalità espresso in questi incontri annuali – non soltanto ospitalità fisica ma, soprattutto, ospitalità psico-spirituale dell'accettazione e del rispetto (per non menzionare il lavoro per la riconciliazione e la pace nelle relazioni internazionali). In questo modo ci offre l'ispirazione per seguire i sentieri Divini della pace, che non sono solo possibili, ma che sono anche il fine ultimo ed il telos, (lo scopo finale, n.d.t.) delle nostre tradizioni religiose.

Con le parole bellissime di San Giovanni Paolo II “noi cristiani, ebrei e mussulmani, in quanto figli di Abramo, siamo chiamati ad essere una benedizione per il mondo. Per essere tali, dobbiamo prima essere una benedizione gli uni per gli altri”.
Possiamo veramente riuscire ad essere una benedizione di pace gli uni per gli altri ed essere una benedizione di pace per il mondo intero.
 

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