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8 Settembre 2015 09:30 | Hotel Rogner

Intervento di Jean Paul Messina



Jean Paul Messina


Università cattolica dell‘Africa centrale (UCAC), Camerun

Terrorismo, esclusioni sociali ed emarginazione dei gruppi fragili nei paesi del bacino del Lago Chad: Il caso del Camerun

Introduzione
Non passa giorno senza che i media ci parlino di attentati o di attacchi terroristici in qualche luogo del mondo. Alcuni osservatori attenti vi leggono i segni premonitori di una Terza Guerra mondiale, tanto la violenza diventa duratura e tende a raggiungere tutti i continenti, con un numero di vittime sempre crescente. Ci si pone allora angosciati la domanda di come tornare alla pace. Se è vero che alcuni focolai sono più forti di altri, la diffusione del fenomeno è oggi temuta da tutta la comunità internazionale. Che sia di origine religiosa, di matrice politica o socio-economica, questa violenza non lascia nessuno indifferente ed è per questo che noi, partecipanti africani, abbiamo accolto con grande attesa il progetto dell’incontro internazionale di Tirana sulla pace, che noi crediamo sempre possibile nel nostro mondo. Ringraziando la Comunità di Sant’Egidio per questa iniziativa profetica, da cui il mondo intero aspetta risoluzioni forti ed utili, la nostra presenza a questo incontro è segno di comunione intorno alla pace come bene comune dell’umanità. Questa presenza rischia di essere più portatrice di domande che non in grado di proporre soluzioni.
E’ con questo stato d’animo che siamo venuti a parlare dell’esperienza del Camerun, una paese del bacino del Lago Chad, che si confronta con la violenza di carattere religioso ma è anche minacciato da situazioni di emarginazione e di ingiustizia sociale che sono altrettante periferie la cui invisibilità tende ad accrescere questa violenza a livello morale e fisico.
Partendo dalla teologia di Papa Francesco sulla dimensione sociale dell’evangelizzazione, sviluppata nell’EvangeliiGaudium, sottoscriviamo l’idea secondo cui non si può annunciare il Vangelo nel mondo d’oggi ignorando le periferie naturali o quelle suscitate dalla cultura dei beni di consumo, per la quale lo spazio economico globalizzato fagocita l’uomo. Papa Francesco nota giustamente a questo proposito: Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. (EvangeliiGaudium, n.53).
Queste periferie, che sfuggono talvolta al nostro orizzonte di visibilità, non sono sempre lontane da noi. Le tensioni che esse generano fanno sì che queste diventino fonte di violenza, rendendo così utopistico il nostro desiderio di pace nell’ambiente che ci circonda e su scala mondiale. In questa modesta relazione, esamineremo il contesto sociale e regionale attuale, precisando la natura delle periferie che vi si sviluppano, le forme di violenza che queste nascondono, ma anche le sfide lanciate alla pace a livello locale e regionale, per poi presentare un abbozzo di soluzioni capaci di far fronte alla violenza e ristabilire la sicurezza.

Il contesto sociale
Parlando del contesto sociale, locale o regionale, non si tratta di fare un’analisi sociologica nel senso epistemologico del termine, ma più semplicemente di indicare i luoghi della frattura sociale, in cui la pace è deteriorata o ancor più minacciata. Sottolineando l’appartenenza del Camerun al bacino del Lago Chad, che conta altri paesi – il Niger, la Nigeria e il Chad – vogliamo sottolineare che molte sfide riguardanti la pace sono comuni a tutti questi paesi. Possiamo sin d’ora segnalare il fenomeno di BokoHaram, che ha il nuovo nome di Stato islamico dell’Africa occidentale. 
Il fenomeno di BokoHaram, per indicarlo con il nome più conosciuto, è affrontato qui sotto due aspetti: quello delle vittime e quello delle conseguenze. Perché al di là dell’insicurezza che questo fenomeno semina nei paesi che formano il bacino del Lago Chad, c’è la questione inevitabile di sapere chi è BokoHaram. Se si concorda nel dire che BokoHaram è una setta terroristica che semina la morte e la desolazione nei paesi che costantemente aggredisce, bisogna però tener conto che questa “famigerata setta” agisce attraverso persone che si ritiene ne siano membri. Dobbiamo tutti interessarci a queste persone che prestano i loro cervelli, le loro braccia, diciamo i loro corpi a BokoHaram, per turbare la sicurezza in un villaggio o in una città della Nigeria, del Camerun, del Chad o del Niger. Ci sembra che è a questo livello che si collocano le periferie sociali che i teorici di BokoHaram sfruttano per vendere l’identità del loro movimento, seminando morte. La zona di azione di BokoHaram, nei paesi che abbiamo citato, corrisponde complessivamente alla cintura del Sahel.
Nel corso delle nostre inchieste nella Regione dell’estremo nord del Camerun, dove BokoHaram infuria con i suoi attacchi terroristici, ci siamo interessati alla questione del reclutamento di BokoHaram. Queste inchieste ci hanno portato a constatare che il gruppo terroristico si interessa particolarmente ai giovani dai 15 ai 25 anni. Abbiamo capito che BokoHaram era anche alla ricerca di ragazze per darle in moglie ai giovani miliziani al fine di farle procreare. In tutti questi casi il problema che si pone qui è quello del reclutamento. E dal nostro punto di vista, è importante interrogarsi sull’origine sociale delle reclute.
L’obiettivo privilegiato è quello dei giovani disoccupati o lavoratori precari come i conducenti di moto-taxi o venditori abusivi. Bisogna aggiungere il caso dei bambini di strada che diventa un fenomenoabbastanza preoccupante nelle nostre città africane. Il giovane viene avvicinato dal capo o da un collaboratoredi BokoHaram che propone una certa somma di denaro, tra i 150.000 Frs e 300.000 FCFA, cioè tra i 230 e i 460 euro. Ai disoccupati in più viene proposta una moto per il trasporto urbano e anche interurbano dei passeggeri, per la loro sicurezza materiale. Queste proposte costituiscono una rivoluzione nella vita di quelli che fino ad allora era costretti a mendicare o a rubare per assicurarsi la sopravvivenza, o che vivevano con appena un euro al giorno.
Questi giovani, che sono attorno a noi e che vivono con noi in condizioni penose e miserevoli, e che, molto spesso, ricevono dalle istituzioni, dai potenti e dai loro genitori solo indifferenza, si rivelano allora un pericolo pubblico temuto dalla società, perché indottrinati e strumentalizzati da BokoHaram si trasformano in banditi, assassini, autori di attentati. In realtà questi giovani sono per la maggior parte vittime di queste imprese terroristiche che li impegnano nelle fabbriche della morte e della violenza. Tra questi giovani ci sono anche i casi di chi è rapito con la forza e arruolato contro la sua volontà in queste fabbriche di morte.
L’indifferenza sociale, che raggiunge lo spazio urbano in Africa, a motivo della rottura dei sistemi di solidarietà tradizionale, non ci permette più di vedere la miseria degli altri, di assumere adeguatamente le nostre responsabilità genitoriali verso i nostri figli e di permettere il funzionamento efficace delle istituzioni dello Stato a servizio degli esclusi della società, come le fasce sociali sfavorite dalla natura ed emarginate dall’economia liberale imposta dalla globalizzazione sul pianeta, e che i nostri Stati accettano molto spesso perché non hanno altra scelta.
Il credente africano, di cui Mons. Jean Zoa denunciava non molto tempo fa la chiusura nel culto , è ancora in grado di vedere attorno a sé queste periferie sociali generate dalla povertà, dalle disparità e dall’ineguaglianza, e di agire di conseguenza? Viene qui chiamato in causa il ruolo delle Chiese di fronte a questa dura realtà che rende potenzialmente esplosive le nostre società. La città africana, giàsoggetta alle pressioni economiche, è il luogo per eccellenza in cui la “periferizzazione” dei gruppi umani vulnerabili avanza a grandi passi. Andrea Riccardi fa un’analisi pertinente esaminando il pensiero di papa Francesco; scrive: - Composta da grandi periferie anonime, la città ha sempre meno un’identità collettiva e un destino comune. Nel suo insieme, essa perde le sue sicurezze: quelli che ne hanno la possibilità ripiegano allora nei quartiere residenziali protetti (è la realtà in numerose città del Sud)  -.
Si capisce dunque che davanti allo scandalo dei bambini soldato, delle bambine che si fanno esplodere per conto di BokoHaram, è la società stessa che bisogna interrogare: cosa abbiamo fatto dei nostri figli? Ci si può davvero convincere che una bambina di 10 anni accetti con gioia di farsi esplodere in un luogo pubblico, associando alla propria morte quella di altre persone, con il pretesto che ella esegue “un ordine di Allah”? la verità è che questa bambina non ha scelta e che il terrorismo si nutre della “periferizzazione” umana, cui si fa molto poca attenzione oggi. Infatti le condizioni sociali in cui la maggior parte dei giovani si trova oggi in Africa li rendono vulnerabili di fronte a certi discorsi integralisti e a proposte di ingaggio professionale che sono in realtà delle trappole. Nel nome di un cosiddetto “nemico” che si chiama Occidente, con la sua cultura - nemico che farebbe del male all’Africa imponendole i suoi valori - bisogna combattere questo “nemico”, così come i loro transfughi africani che ci governano, per liberare il continente e portare il benessere a tutti. Questo discorso, nella forma e nel contenuto, è seducente per chi manca di discernimento o che non ha il tempo di discernere. Non si capisce subito che quelli che fanno questi discorsi, come i leader di BokoHaram, hanno essi stessi potenti reti di partenariato in questo Occidente, diventato il loro fondo di commercio. E che invece della liberazione dell’Africa, c’è in gioco il traffico di droga e di altre attività molto redditizie, in cui conta solo l’interesse dei capi e dei leader. I giovani ingaggiati in questa avventura sono doppiamente vittime: vittime della violenza del discorso e vittime del sistema cui aderiscono, che si rivela un mostro pronto a schiacciarli, nel caso in cui si manifesti il minimo segnale di disobbedienza. Senza volersostenere che i giovaniaderenti a BokoHaram ignorino la realtà che li aspetta – prova ne è il fatto che il movimento ha continuato a reclutare,nonostante la messa in guardia da parte dei media nazionali e internazionali – vogliamo qui soprattuttotratteggiare l’ambiente politico e religioso, sul piano locale, regionale e internazionale.
Sul piano politico, malgrado reali sforzi osservati nei paesi del bacino del Lago Chad, le disparità sociali sono ancora forti e i giovani fanno fatica a trovare uno spazio di espressione e di azione in quei regimi in cui le autorità politiche sono refrattarie al cambiamento. Si può allora constatare che malgrado la volontà politica visibile a livello dei discorsi, non segue il cambiamento alla base. Sul piano internazionale si ha la sensazione che la politica securitaria delle grandi potenze è funzione dei loro interessi economici immediati. Tra le promesse dei discorsi e l’effettività della loro realizzazione sul campo, c’è un grande scarto. E c’è la tendenza a normalizzare questo scarto. Le promesse fatte dagli Stati Uniti per liberare le 230 ragazze rapite il 15 aprile 2014 al liceo di Sibok, nello Stato di Bornou in Nigeria, non saranno mai mantenute se è vero che queste ragazze sono state per la maggior parte sposate a forza ai miliziani di BokoHaram. La comunità internazionale nutre ogni giorno i paesi del bacino del Lago Chad con promesse di aiuto nella lotta contro BokoHaram, ma la setta continua tranquillamente i suoi attacchi e saccheggi laddove li programma. C’è qualcosa che il profano non capisce. Si sa benissimo che la destabilizzazione socio-politica dell’Africa non farà bene a nessuno. E quando si vedono le coorti di migranti africani che fuggono la miseria dei loro paesi di origine, la cui volontà di raggiungere l’Europa non viene dissuasa neppure dal pericolo di morire in viaggio, bisogna convincersi che la destabilizzazione dell’Africa avrà conseguenze nefaste per il resto del mondo, a cominciare dall’Europa. La politica securitaria internazionale dovrebbe mostrarsi più coerente e più rigorosa, sotto l’egida della Nazioni Unite. Perché ovunque la pace sia in crisi, il resto del mondo ne risente i contraccolpi, a breve o a lungo termine.
Riguardo alla responsabilità delle religioni, ci si può chiedere se esse sono sempre attrezzate spiritualmente e dal punto di vista dottrinario a vedere l’uomo e ad accoglierlo così com’è. Papa Francesco parla di “discernimento evangelico” (E.G. n.50), per interpellare ogni missionario, là dove si trova, sull’esigenza di decifrare i segni dei tempi, per capire il modo in cui evangelizzare. In altre parole, le situazioni di miseria umana non devono sfuggire a colui che viene nel nome del Signore a seminare la speranza e la fede con l’annuncio di una Notizia per essenza Buona, che ha la vocazione di cambiare radicalmente la vita di colui a cui questa Buona Notizia è destinata. Ancor più, basta fare proselitismo per avere la coscienza tranquilla? Non è bene invece assicurare l’educazione religiosa di chi accetta di venire incontro al Signore e che lo sceglie? In realtà, il problema che si pone non riguarda soltanto le Chiese cristiane, ma tutte le religioni in cui si riconosce l’unico Dio.
Ogni religione deve essere in grado di individuare le periferie umane e di assumersi con un impegno sociale la condizione umana di quelli che vi vivono. Questo significa impegnarsi nella lotta contro la povertà, le ingiustizie e le disuguaglianze sociali, nel nome di Dio, che ama l’uomo e desidera salvarlo.
Nel contesto di violenza imposta dal terrorismo di alcuni movimenti, che rivendicano per sé un’identità agli antipodi della religione, ci sembra pertinente e urgente mettere l’accento sulla formazione dei credenti. La responsabilità di questa formazione incombe innanzitutto sui leader religiosi o ancora sulle strutture messe in atto a questo scopo. – Questa formazione mira particolarmente a dotare il credente delle risorse spirituali e morali che gli permettano di discernere tra l’autenticità dottrinale della propria religione e i discorsi integralisti o fondamentalisti che ne derivino. Sappiamo tutti che BokoHaram non incarna l’autenticità dell’Islam, che è una religione di pace e di promozione umana. Ma BokoHaram sfrutta l’ignoranza religiosa dei giovani per conquistarli alla propria ideologia della violenza. Ciò che diciamo di BokoHaram è valido per alcune confessioni cristiane, che spogliano senza il minimo scrupolo le famiglie nel nome di Gesù Cristo, con il pretesto di scacciare i demoni o di vendere loro la prosperità materiale, quando non si tratta semplicemente di rompere l’unione coniugale. L’ignoranza religiosa ci sembra essere una sfida maggiore da rilevare per costruire comunità di credenti dalle convinzioni ferme e incrollabili, veri scudi contro i quali si schianterebbero tutti quelli che vogliano sfruttare la religione per fini ideologici ammantati di violenza.
Le periferie sociali in Africa sono intorno a noi e si moltiplicano nelle nostre famiglie. Quelli che dirigono, o che hanno la vocazione a dirigere, la gente dovrebbero fare di queste parole di Papa Francesco una vera carta sociale: Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. (E.G. n.59).
A Yaoundé come a Ndjaména, Abuja e Niamey, si amplifica il fenomeno dei bambini di strada. Li si vede sulle piazze, come nel centro di Yaoundé, fumare canapa o aspirare droghe leggere in pieno giorno, a volte tra l’indifferenza delle forze dell’ordine la cui missione è prevenire o reprimere queste pratiche. Quanto agli altri cittadini, evitano di ritrovarsi nelle vicinanze di questi bambini, sia perché questi ultimi turbano la loro tranquillità con la mendicità, sia perché hanno paura di essere aggrediti, dato che, tra questi bambini di strada, non c’è un confine tra mendicità e aggressione. Molti di questi bambini sono alle porte delle nostre chiese e delle cattedrali, alle porte delle nostre moschee e dei nostri templi.
La situazione è sempre più complessa nella misura in cui alcuni di questi bambini sono capeggiati da gang organizzate, che li iniziano alla cultura della violenza e le cui frontiere restano difficili da delimitare. Assistiamo ad un altro fenomeno che è quello degli adulti di strada. Fin ad ora le nostre grandi città accoglievano malati senza fissa dimora come i lebbrosi, ma sempre di più si vedono spazi urbani occupati da adulti che passano il loro tempo a mendicare come i bambini di strada. Infine l’abbandono degli anziani prova che oggi la famiglia africana è in piena crisi. Non riveste più il suo ruolo tradizionale di integrazione e di equilibrio sociale. Non assicura più l’educazione dei bambini come prima e partecipa ai fattori di disintegrazione del tessuto sociale in Africa. La città (più del 40%) della popolazione africana), costituisce il luogo privilegiato in cui tutte le periferie umane si concentrano e sono più visibili. E bisogna leggere, nella crescita demografica urbana, quella delle periferie umane. Fatto che pone poi il problema della pastorale in ambiente urbano.  Il meno che si possa dire è che questa situazione è, come abbiamo già detto, potenzialmente esplosiva, per il fatto che due terzi della popolazione urbana vive al di sotto della soglia di povertà, con meno di un euro al giorno. Cosa si fa per porre rimedio a questa situazione che minaccia la pace?

Abbozzi di soluzione
Il contesto di crisi sociale, che affligge l’Africa del Sahel, segnata dalla violenza dei movimenti islamisti o djihadisti, ma anche dalle tensioni sociali, chiede soluzioni di emergenza pertinenti e mirate a livello politico come sul piano religioso Partiremo da ciò che si fa già sul campo per vedere se questo è sufficiente a sradicare dalla coscienza collettiva il sentimento di insicurezza che gli uni e gli altri provano in questo momento.

La guerra contro BokoHaram
La guerra era diventata inevitabile. BokoHaram stava per impadronirsi di buona parte dei territori appartenenti alla zona del Sahel degli Stati del bacino del Lago Chad. Questo obiettivo fa sempre parte del suo programma di azione, e il fatto che il movimento abbia cambiato nome per farsi chiamare Stato Islamico dell’Africa occidentale mostra che questo aspetto politico resta di attualità. E questo non si può realizzare senza l’uso della forza, i cui effetti perversi sono stati rilevati sulle pacifiche popolazioni. Il Camerun, dichiarando guerra a BokoHaram, attraverso la voce del suo capo di Stato, Paul Biya, il 17 maggio 2014, ha impedito e continua ad impedire a BokoHaram di stabilirsi sul suo territorio. La guerra ha cambiato faccia anche se resta sempre asimmetrica. Partita dagli attacchi compiuti da miliziani armati pesantemente, ha la tendenza a ridursi agli interventi kamikaze delle ragazze che si fanno esplodere in alcuni luoghi delle nostre città. La città di Maroua, in Camerun, ne è stata vittima tre volte. Ma questo cambiamento di strategia fa dire ad alcuni osservatori che il movimento è in una situazione di affanno. La forza multinazionale, che fatica a costituirsi a causa dei mezzi logistici e finanziari ma anche per una politica di coordinamento che si riveli efficace, ha come obiettivo principale di mettere definitivamente il movimento nello stato di non nuocere nell’insieme dello spazio che corrisponde alla regione dell’estremo nord del Camerun, a Nigeria, Niger, Chad e Bénin. La guerra contro BokoHaram è giusta ed utile, anche se il suo prezzo costa molto caro agli Stati che la conducono e ritarda la realizzazione dei progetti di utilità sociale. Mentre bisogna condurre la guerra, è necessario risolvere i problemi connessi, come quello dei rifugiati. Il Camerun paga il tributo più pesante su questo piano; nell’Estremo Nord ci sono più di 100.000 rifugiati nigeriani e quasi altrettanti nella regione dell’Est, tra Garoua Boulaì e Bertoua. In questa regione i rifugiati sono quasi esclusivamente Centrafricani che sfuggono allo scontro tra gli Antibalaka, che pretendono di essere cristiani, e i Seleka, che sarebbero musulmani, un conflitto di altro genere, di natura politica ma dalla colorazione religiosa.
Nel caso della guerra propriamente detta con BokoHaram o dell’accoglienza dei rifugiati, di qualunque origine, il sostegno dei partner stranieri e della comunità internazionale è indispensabile. Su questo piano c’è ancor più retorica politica che un efficace impegno sul campo. La solidarietà internazionale tarda a prendere corpo in modo da dare dei risultati tangibili sul campo. E come dice un proverbio africano: quando la casa del tuo vicino brucia, se non lo aiuti, le fiamme toccheranno la tua, nella loro corsa folle e cieca. L’Africa, nell’abbraccio delle forze del male, aspetta il sostegno formale e incondizionato della comunità internazionale per non dire dell’Occidente. Non si può oggi voler salvare le foreste africane senza interessarsi alla condizione di quelli cui Dio ha donato queste foreste. Ecco perché Papa Francesco parla di “debito ecologico” . Non diremo altro. Insomma, la lotta contro BokoHaram e i suoi affiliati deve essere accompagnata, negli Stati interessati, da un nuovo sguardo politico sulla gestione delle risorse economiche che si auspica più equa e a una vera politica di apertura ai giovani, di integrazione e di promozione di questi ultimi. Se l’intenzione è questa, i risultati sono ancora troppo inferiori alle nostre attese. Ne va della stabilità politica e della sicurezza sociale dei nostri paesi. Ma bisogna sapere che se BokoHaram, come prevediamo tutti, sarà prossimamente battuto, la lotta contro gli integralismi politici e religiosi non sarà per questo vinta, se le religioni non si impegnano in questo.

Dimensione sociale dell’evangelizzazione e dialogo interreligioso
Jean-Marc Ela, il cantore africano della teologia della liberazione, mette in evidenza che il Vangelo non può dissociarsi dalle situazioni in cui l’uomo è oppresso: - Essa (la Chiesa) articola la testimonianza della Resurrezione con la liberazione di tutto ciò che opprime l’uomo - 
Papa Francesco ci insegna opportunamente che la confessione della fede non si fa senza un impegno sociale perché la miseria umana è la conseguenza dell’opera delle potenze di questo mondo, che nel nome dei loro interessi politici ed economici, tolgono agli altri ciò che dovrebbe costituire l’orgoglio di tutti: la dignità. Il che equivale a dire che il Levita africano non ha il diritto di tacere davanti all’ingiustizia, a rischio di diventarne complice; ancor meno ha il diritto di restare con le braccia conserte laddove deve dare una mano per sollevare il ferito sociale dal suo stato endemico e cronico. Le periferie umane si sviluppano attorno a noi e bisogna essere spiritualmente miopi per non vederle.
A Yaoundé, dove l’arcivescovo metropolita ha appena promosso il primo sinodo del suo episcopato, le attese legittime di una pastorale sociale a favore degli emarginati sociali sono tanto più forti in quanto è stata vista e apprezzata l’azione di solidarietà che egli ha saputo istituire da Yaoundé a favore delle vittime di BokoHaram nell’estremo Nord e dei rifugiati centrafricani nell’Est del Camerun. Attraverso l’assistenza a queste categorie sociali con doni e derrate non deperibili, è stata data agli osservatori la possibilità di scoprire e apprezzare il ruolo di un arcivescovo metropolita. Bisogna riorganizzare questa diaconia e ridarle dinamismo nella città di Yaoundé in cui il numero dei bisognosi sociali è in continuo aumento.
Parlando di poveri, bisogna sapere oggi che questi appartengono a tutte le religioni praticate in Camerun. Vogliamo mettere particolarmente in evidenza i cristiani di diverse confessioni e i musulmani. Il cosmopolitismo demografico a Yaoundé si accompagna al cosmopolitismo religioso, purtroppo con accenti di integralismo tra alcuni.
Questa situazione suscita allora l’esigenza del dialogo interreligioso. Se questo dialogo è antico, oggi diventa urgente e più che mai necessario a causa del fenomeno BokoHaram. L’Associazione Camerunese per il Dialogo interreligioso, ACADIR, fondata nel 2004 dai musulmani e dai cristiani anima questo dialogo su tutto il territorio camerunese. La Comunità locale (camerunese) di Sant’Egidio fa parte dell’ACADIR. Gli assi d’azione di questo dialogo sono:
-  i culti interreligiosi
-  la formazione degli animatori religiosi di base
-  il versante educativo e i forum interreligiosi.
Nel quadro del versante educativo, si realizza oggi sotto la responsabilità dell’autore di queste righe un grande progetto sulla conoscenza delle religioni in Camerun. Questo progetto mira a integrare gradualmente l’insegnamento delle religioni in tutte le scuole del Camerun: laiche, confessionali e pubbliche. La posta in gioco è la lotta contro gli integralismi e gli estremismi attraverso una buona conoscenza delle religioni. Sappiamo che BokoHaram sarà vinto, ma per questo gli integralismi scompariranno? Non è scontato. Ecco perché ci sembra utile e opportuno agire sulla coscienza dei giovani, base del reclutamento e vittime dei movimenti integralisti, attraverso un’educazione religiosa adatta e specifica.

In definitiva, la pace non è un’utopia nel senso filosofico del termine. Resta possibile se una mobilitazione locale ed internazionale è reale, se le grandi religioni manifestano la buona volontà di riconquistarla attraverso il dialogo e le azioni comuni contro le ingiustizie sociali, se nel nome della nostra fede comune nell’unico Dio, ci impegniamo a sopprimere le periferie umane intorno a noi.
 

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