Sarà elevato alla gloria degli altari don Giuseppe Puglisi, il sacerdote assassinato da Cosa Nostra il 15 settembre 1993 nel quartiere palermitano Di Brancaccio, dove era nato e cresciuto e dove svolse la sua missione negli ultimi tre anni di vita. Morì a 56 anni, poche ore dopo esser stato colpito da un proiettile di pistola, munita di silenziatore, sparato a non più di 20 cm da un sicario alle sue spalle. «Quel prete rompeva le scatole», disse uno degli imputati al processo.
Ora Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto sul martirio di don Puglisi e la formula è quella: «In odium fidei». Umanista di profonda cultura e uomo di rara mitezza, venerato dai suoi studenti e dagli allievi di catechismo, nella pratica quotidiana dei principi del Vangelo aveva sottratto alla condizione di manovali del crimine tanti giovani di un quartiere ad alta densità mafiosa, educandoli alla legalità, dando vita a manifestazioni civili, sollecitando alla conversione gli uomini d'onore dal pulpito della chiesa di San Gaetano.
E proprio l'opposizione al reclutamento dei giovani al mondo del crimine fu il motivo principale che spinse la mafia ad eliminarlo. Vincenzo Ceruso, studioso palermitano della mafia, narra nel libro «A mani nude. Don Pino Puglisi», prefato da Andrea Riccardi, «la straordinaria avventura umana di un uomo che seppe affrontare la mafia con la sola forza delle parole, della cultura e della fede. Senza difese e senza garanzie. Senza fuggire quando avrebbe potuto» (San Paolo, pp. 110, 10).
Prof. Ceruso, don Puglisi non ha lasciato molti scritti; com'è riuscito a ricostruire il suo pensiero?
Non è stato facile. Padre Puglisi non era un teorico. Le sue riflessioni erano finalizzate alla missione e alla comunicazione del Vangelo. Ho ripreso i testi che aveva preparato per i campi scuola che teneva con i giovani. Si tratta di meditazioni sorrette da una trama fittissima di riferimenti biblici e culturali. Dopo la sua morte i magistrati hanno trovato nella sua povera stanza oltre tremila volumi. Un'altra fonte importante per conoscere don Pino sono i "verbali" delle riunioni che era solito tenere a Palermo, in un centro sociale, negli anni Settanta. Vi partecipavano giovani provenienti dai migliori licei cittadini, che andavano in periferia per conoscere un'altra città, la città dei poveri e dei diseredati. Puglisi li aiutava ad affrontare le tante domande che possono sorgere in un giovane di fronte ad un contesto sociale degradato.
Negli anni Settanta viene inviato a Godrano. Cosa accade?
Accade una rivoluzione. Godrano è un paese in provincia di Palermo, che in quegli anni faticava ad uscire da un conflitto di una ferocia inaudita. Quasi in ogni famiglia vi Era stato un morto ammazzato, a causa di una faida tra due clan che risaliva all'inizio del Novecento. I bambini venivano istruiti dai genitori perché, anche in chiesa, non si accostassero ai coetanei di una famiglia nemica. Le vedove trasmettevano ai figli, di generazione in generazione, un codice dell'odio e della vendetta. In questa situazione don Puglisi prova, all'inizio, un senso desolante d'impotenza. E forse questo il momento più difficile della sua vita sacerdotale. È persino tentato di rinunciare all'incarico di parroco, vorrebbe forse abbandonare il paese.
Chi lo aiuta?
Lo aiutano i suoi amici di «Presenza del Vangelo», un movimento ecclesiale a cui Pino Puglisi era molto legato. Venivano da Palermo per sostenerlo nell'animare gli incontri di preghiera, che il giovane parroco aveva iniziato a tenere casa per casa. Si trattava di una immissione di energie nuove in un tessuto umano che si era inaridito. Cambiavano le abitudini religiose. Il Vangelo diventava il centro di una rinascita spirituale. E gradualmente iniziò a cambiare il cuore di tanta gente. Le madri che avevano perduto i figli nella faida smisero di coltivare sentimenti di vendetta. Molti si aprirono al perdono.
Cosa ha significato l'esperienza del Belice per Puglisi?
Il Belice, a mio parere, è un passaggio decisivo per comprendere l'itinerario spirituale di padre Puglisi. Durante il terremoto del Belice del 1968 vi furono nella Sicilia occidentale centinaia di morti, intere città vennero rase al suolo, migliaia furono gli sfollati. Nella prefazione al mio libro Andrea Riccardi ha scritto: «Quelle macerie assumono una valenza quasi di cifra dell' esperienza cristiana del parroco di Brancaccio». È molto vero. Il giovane sacerdote si confronta per la prima volta con un dolore radicale, con situazioni intollerabili di sofferenza. E non si perde d'animo. Celebra la liturgia per strada, tra i baraccati. Cerca le parole per incoraggiare quell'umanità disperata.
Prima di ucciderlo, i mafiosi avevano tentato di annientarne l'immagine ...
I capi del mandamento di Brancaccio, i Graviano, iniziarono a spargere la voce che Puglisi ospitasse agenti della polizia nel centro sociale da lui creato. Era, insomma, uno sbirro, un finto prete che nascondeva ben altre intenzioni. Ovviamente era tutto falso, ma le menzogne servivano a Cosa nostra soprattutto per giustificare quest'omicidio agli occhi della sua gente, gli affiliati all' organizzazione, e anche di fronte alla gente del quartiere in cui il sacerdote operava. Le voci infamanti continuarono in realtà anche dopo la morte, ma la figura di Puglisi era talmente limpida che non poterono trovare terreno fertile a cambiare una mentalità.