Andrea Riccardi: la memoria della Shoah non finisce. Bisogna dire con forza e coscienza chiara, a chi gioca con l’orrore o l’ambiguità: mai più!

L'intervento alla manifestazione per la memoria del 16 ottobre 1943

Intervento di Andrea Riccardi alla Memoria della Deportazione degli Ebrei del 16 Ottobre 1943

La memoria della Shoah non finisce. Per questo ricordiamo il 16 ottobre 1943. La miniera dei ricordi contiene sempre nuovi frammenti. Un documento emerso dalle carte vaticane parla degli ebrei nell’Est Europa. Ne scrive Pirro Scavizzi, romano, cappellano sui treni in Polonia e Ucraina. Si potrebbe dire che sono fatti noti e già indagati. Non è così. C’è sempre qualcosa in più, una diversa prospettiva, un altro dolore in una storia terribile, di cui non ci dovevano essere né testimoni né prove. La memoria che non finisce è una risposta ai negazionismi, ma anche alla dimenticanza di una società concentrata sull’io, spesso ammalata di vittimismo.  
Scavizzi, all’inizio del 1942, scrive: “La eliminazione egli ebrei, con le uccisioni in massa, è quasi totalitaria, senza riguardo ai bambini nemmeno se lattanti”.
“E’ evidente – continua - che l’intenzione dei tedeschi è… eliminare gli ebrei secondo vari sistemi di cui il più frequente e il più conosciuto è quello del mitragliamento di massa. Per queste esecuzioni, gruppi di famiglie ebraiche… sono deportati a qualche chilometro dalla città, vicino ai trinceroni della guerra oppure in luoghi dove precedentemente sono state fatte scavare delle enormi fosse costringendo a questo lavoro gli uomini stessi ebraici. Presso l’orlo delle trincee o delle fosse, questi gruppi di centinaia e centinaia e talvolta migliaia di persone vengono inesorabilmente mitragliati e gettati nelle fosse stesse.”
Il prete romano assiste al lavoro forzato di ebrei intirizziti dal freddo su un ponte, senza ripari, a rischio di cadere nel fiume. Le sentinelle tedesche, interrogate su questo lavoro, rispondono: “E’ proprio quello che si vuole, e di tanto in tanto diamo noi stessi una spinta per farli cadere”. La vita di un ebreo per loro non vale nulla. Eppure Scavizzi nota talvolta sul volto degli ebrei tratti di “serenità”: un aspetto grave e dignitoso, anche se costretti a lavori inutili o durissimi. Come, in Ucraina, quando hanno scritto su un mucchio di neve, Evviva il popolo eletto, disegnando la stella di Davide.
La memoria ricorda e rivela i lati oscuri della storia del Novecento, brutalmente incarnati nel nazifascismo. Tanto che ci chiediamo come sia possibile che oggi troppi -sì, sono troppi, anche se minoranza- facciano riferimento ai simboli, ai ricordi, agli odi e ai metodi violenti di quel mondo, che si ispirino ad essi per fare violenze, che esaltino l’antisemitismo proprio dopo la Shoah. L’abbiamo visto recentemente a Roma. E’ impressionante, solo nell’ultimo anno, la mappa delle aggressioni a sfondo nazista o fascista, quelle razziste, i fatti antisemiti. Colpisce la diffusione della cultura dell’odio, specie sulla rete. Sembra che un argine sia crollato e che il veleno dell’odio e dell’antisemitismo si diffondano, anche in forma subdola. Così uomini e donne spaesati abbracciano simboli nazifascisti e compiono azioni violente. E’ la vita come odio, che non è né rivolta né libertà.
Siamo in un periodo di fragilità, segnato dalla pandemia e dalla sua eredità. Il futuro non può essere la riedizione del passato, specie dei suoi aspetti più oscuri. Scompaiono i testimoni degli orrori del Novecento, della Shoah, delle guerre. Noi, figli del Novecento abbiamo un’immensa responsabilità di fronte al futuro: trasmettere la memoria della Shoah, la coscienza del clima di odio e acquiescenza in cui è avvenuta… trasmettere quell’antifascismo e antitotalitarismo, che non sono posizioni partitiche o faziose, ma chiarezza, amore per la libertà, rispetto per la vita e la democrazia, scelta di civiltà. I figli e le figlie del Novecento, assieme ai figli degli anni Duemila, possono evitare che le ombre malvage del secolo scorso si proiettino sul futuro: dire con forza e coscienza chiara, a chi gioca con l’orrore o l’ambiguità: mai più!   

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