Gli aggressori di Arturo e la sfida del recupero

Chissà cosa deve essere passato nella mente dei tre minorenni quando hanno ascoltato la sentenza che li ha condannati a nove anni e tre mesi per la feroce aggressione ad Arturo. Così come vorremmo capire cosa avevano in testa quando lo hanno colpito con numerose coltellate alla gola e al torace, rischiando di ucciderlo. Dopo il verdetto alla baby-gang, che rappresenta un punto fermo di questa vicenda, comincia forse la fase più difficile, quella del recupero di questi minori.
Quello che è certo è che non avrà nessun effetto di deterrenza verso la gioventù marginale e deviata della città. Se altri ragazzini si aggregheranno per mettere paura o per compiere azioni violente nei confronti di altri, difficilmente si ricorderanno mai degli anni di pena inflitti dal tribunale dei minori di Napoli agli assalitori di Arturo.

Il malessere che prende i giovani violenti è qualcosa che non è indecifrabile. Ne abbiamo parlato tante volte sulle colonne di questo giornale. Nasce nel contesto familiare e ambientale e passa per il fallimento a scuola. Si tratta di ragazzi periferici, un po’ abbandonati e un po’ narcisisti in cerca di identità e riscatto, che per emergere e sentirsi “qualcuno” ostentano coltelli e aggressività fino a diventare cinici e spietati. Con un palcoscenico rappresentato dai social dove hanno il pubblico da cui farsi applaudire.  E sotto l’effetto di droghe che assicurano impeto e incoscienza.

Qualcuno ha definito troppo blanda la condanna, altri l’hanno considerata eccessiva. Ma al di là di un pronunciamento che appare ragionevole, il problema essenziale è come questi minori sconteranno gli   anni di carcere che gli stanno davanti. Lo ha detto la stessa Maria Luisa Iavarone, la mamma di Arturo: “riusciranno a capire veramente il male che hanno fatto? E sapranno cambiare comportamenti e modelli di riferimento una volta che saranno tornati in libertà?”  Qui il percorso appare tutto in salita. I tre non hanno mai mostrato un segno di pentimento, e durante questo anno sono apparsi spavaldi e privi della comprensione della gravità del gesto compiuto.

Tuttavia non bisogna mai rinunciare a sperare nel cambiamento delle persone. Per recuperare quei ragazzi c’è bisogno di una grande azione educativa e di un efficace programma di osservazione e trattamento penitenziario. Di sicuro non serve metterli in cella e buttare la chiave. Uscirebbero peggiori di come sono entrati. Ma piuttosto occorre disattivare quella chiave interiore che ha innescato tanta violenza.  Potrebbe essere interessante ad esempio metterli a confronto con persone deboli, come i senza fissa dimora o gli anziani. Ascoltando le loro storie e o facendo qualcosa di concreto, come preparargli i pasti, attività che fanno alcuni ragazzi di Nisida. Questo confronto oltre ad incuriosirli, potrebbe far emergere la loro debolezza, perché in fondo questi minori dietro l’arroganza nascondono un enorme vuoto e una grande fragilità.  Ricette non ne esistono. Ma bisogna provarle tutte, ascoltando e cominciando un serrato confronto.  E poi sarebbe bene avviarli a percorsi di formazione professionale, che possano appassionarli, responsabilizzarli e nello stesso tempo far intravedere qualche sbocco lavorativo.

La nuova riforma dell’ordinamento penitenziario, tra le poche innovazioni positive, introduce alcune misure di comunità per i minori, anche se di durata inferiore a quelle previste nell’impianto dell’ex ministro Orlando.

Se riscontriamo con favore il fatto che i minori debbano essere separati dai giovani adulti, cioè dai ragazzi che hanno meno di 25 anni e che hanno commesso il loro reato quando ne avevano meno di 18, bisogna segnalare la criticità che con il nuovo regolamento le celle possono ospitare fino a 4 reclusi invece dei 2 previsti fino ad oggi, con un evidente aggravio dei problemi di convivenza.

In ogni caso questi ragazzi vanno accompagnati nel loro percorso  rieducativo, con delle forti e autorevoli figure di riferimento che sostituiscano quei padri e quei maestri che non hanno avuto.

Qualcuno ha chiesto ad Arturo se avrebbe perdonato i suoi aggressori. Ma il perdonismo è qualcosa  che non ci convince e rimanda ai talk-show televisivi. E poi il perdono riguarda la sfera della propria coscienza e va in ogni caso chiesto,  prima di essere concesso.

Noi auspichiamo   che un domani si possa incontrare con qualcuno dei suoi assalitori, anche solo per caso, e una volta chiariti si possano salutare con una sincera stretta mano.


[ Antonio Mattone ]