Dove abita la solidarietà

Dove abita la solidarietà

Italiavirus/Gli homeless
Via Dandolo, Trastevere, Roma. Mensa della Comunità di Sant'Egidio. Qui i senzatetto trovano cibo, affetto, speranza, informazioni. In un'emergenza nuova più atroce che mai che costringe a rinchiudersi chi non ha un rifugio

Claudio ha un sorriso gentile. Si distingue tra gli altri, in fila mentre aspetta il turno per un pasto caldo. È bonario, ha una parola di affetto per tutti, mostra familiarità con lo spazio e le persone. A guardargli il viso e gli occhi miti, immaginare la sua vita in strada è difficile. Poi gli abiti lisi, le scarpe consunte e le sue mani, soprattutto le sue mani, raccontano un'altra storia, quella di vent'anni passati a dormire dove capita, stazioni, ponti, baracche. Oggi vive in un deposito di pezzi di ricambio per automobili, alla periferia sud di Roma. Il proprietario gli consente di restare lì in cambio di qualche lavoretto.

Così Claudio dorme tra i rottami e le ferraglie. Tre volte a settimana prende l'autobus e arriva nel centro della città, a Trastevere, e aspetta un pasto.
La vita di Claudio non era una vita ai margini, niente droga né illegalità. Claudio è stato un uomo sfortunato, un matrimonio finito male, ha perso il lavoro e con il lavoro la possibilità di avere un posto dove stare. 
Il suo è il percorso di un uomo che ha attraversato un momento di difficoltà, di quelli che a un certo punto si biforcano, da una parte c'è una faticosa risalita, dall'altra una discesa lenta che si accanisce, la vita che ti volta le spalle e ti conduce al degrado della strada. Un mese prima avevi una vita difficile ma dignitosa, cerchi un cartone per dormire in stazione, «Il freddo ti ammazza», dice Claudio per riassumere cosa significhi la vita in strada. 

Seduto al tavolo della mensa della Comunità di Sant'Egidio in via Dandolo, a Roma, la parola che più spesso ripete è: amici. «Qui ho trovato degli amici», dice Claudio, «perché un pezzo della mia giornata è capire come mangiare e qui lo faccio tra amici». Quando arriva in mensa si sente sollevato. Sistema con cura il bicchiere, il piatto, prende una fetta di pane e una la sistema nella busta, per portarla via insieme ai panini forniti dai volontari.
Oggi Claudio è solo, al tavolo. Solo due mesi fa l'avrebbe diviso con altre tre persone, ma le precauzioni anti Covid sono arrivate anche qui, anzi a maggior ragione qui, a proteggere i più vulnerabili. Per nominare il virus Claudio dice «questo male che c'è in giro», lo ripete tante volte prima di accennare un altro sorriso e dire: «Prima o poi finirà, e speriamo presto perché ora è più difficile affrontare la giornata. non è più come prima, nessuno ti regala un bicchiere d'acqua, un panino, nessun lavoretto, niente». 
Lucia Lucchini è la responsabile della mensa, dona il suo tempo alla Comunità di Sant'Egidio da più di trent'anni:oggi è al portone in guanti e mascherina per assicurarsi che venga rispettata la distanza di sicurezza, che gli ospiti capiscano che è necessario aspettare più di prima, a rassicurarli che però qui troveranno sempre un pasto caldo, oggi come ieri, non importa a quale distanza dai volontari. «Non è stato facile sulle prime, abbiamo cambiato tutta l'organizzazione del servizio recependo le precauzioni. Ma era l'unica soluzione, non potevamo chiudere. C'è un gran bisogno di cibo». Bisogno di cibo. Scandisce le parole, Lucia. La sua voce incide con tono grave il vuoto che circonda la mensa. «Un grande, crescente, bisogno di cibo». 
Tutto è chiuso, saracinesche abbassate, negozi serrati. Bandiere tricolori alle finestre, lenzuola con arcobaleni e le scritte "Andrà tutto bene" appese alle finestre. 
Eppure in ogni difficoltà, nascosti all'angolo, fuori dagli sguardi, ci sono gli esseri umani toccati dalla malasorte. E oggi si vedono di più. Perché soli riempiono gli angoli delle strade svuotate dall'isolamento. I senzatetto, gli sfortunati finiti in strada, quelli rimasti indietro. Chi non ce la fa. 
«I tavoli da sei sono apparecchiati per due, abbiamo ridotto la presenza di chi aiuta ai tavoli, limitandola al necessario, la fila è più lunga quindi apriamo un'ora prima. La fila è più lunga per le distanze necessarie, certo, ma anche perché la fame scandita dalle parole di Lucia si allarga e rispetto al prima, al pre-Covid, arrivano in mensa dalle cento alle centocinquanta persone in più a turno.

Significa servire 450/500 pasti anziché 350 al giorno. 
Lucia racconta i primi giorni con pena, lo smarrimento degli ospiti risvegliati in una città deserta, con le pattuglie delle forze dell'ordine a presidiare strade e piazze, stazioni dei treni spopolate, privati del conforto di un aiuto - qualche soldo o un po' di cibo - a supportarli «arrivavano qui affamati, ma soprattutto spaventati, si sono svegliati improvvisamente in una città deserta, con la polizia che chiedeva "ma vai a casa, ma perchè non hai un posto dove stare?" e loro arrivavano qui molto agitati, confusi, con lo stigma dell'emarginazione ancora più marcato, a chiedersi: "Mi devo nascondere? E dove?"». 
Chi non ha casa non sa cosa accade, ha bisogno di informazioni. Non ha una tv, una radio, per seguire ora per ora lo svolgersi degli eventi, per loro il rumore di fondo dei telegionali si sente in lontananza dalle case degli altri. Bussare alla porta dei volontari, prima ancora dei pasti, è stata una richiesta d'aiuto per capire cosa stesse succedendo intorno a loro. 
Entra Enzo, è nervoso: «Mi hanno fermato, "dove vai? Torna a casa". E gli ho riso in faccia al poliziotto, io non ce l'ho una casa, dormo sotto al Tevere vuoi venire a vedere casa mia in mezzo ai topi?». I primi giorni del blocco decine di senzatetto sono stati fermati dalla polizia, che diceva loro di tornare a casa e loro spiegavano di essere senza fissa dimora. Un disagio nel disagio, dover continuamente spiegare, esporre, il proprio stato di vulnerabilità, e così la Comunità di Sant'Egidio si è attrezzata.

All'entrata del palazzo che ospita la mensa c'è un volontario con guanti e mascherine, cartelli scritti in dieci lingue diverse per spiegare le precauzioni da prendere per evitare il contagio e un tavolo con un volontario che distribuisce un foglio con l'indirizzo di via Dandolo, la sede della mensa nel quartiere romano di Trastevere, che attesta
che i senzatetto si stiano recando lì, a ricevere un pasto. C'è scritto: «Stato di necessità dovuto alla mancanza di generi alimentari, il soggetto non riesce a garantire la propria sussistenza e si reca alla mensa di via Dandolo». 
Da quando i senza fissa dimora mostrano questo foglio, il rapporto con le forze dell'ordine è più semplice. Quella scritta significa la fame, e il grande e crescente bisogno di cibo di cui parla Lucia. Qui, in via Dandolo, da sempre si può mangiare finché si è sazi, e chi vuole può anche portare via un sacchetto di cibo, per aiutare altri che non riescono a raggiungere la mensa, o semplicemente da tenere da parte in caso di bisogno. 
«Ci chiedono ogni giorno se rimarremo aperti, hanno paura che si interrompa la continuità dei servizi», dice Lucia. «Le persone che arrivano qui sono fragili, anziani, donne, sono tutti individui esposti. I sacchi a pelo che distribuiamo di notte possono proteggerli dal freddo ma non dal virus purtroppo».
Sono ottomila le persone senza dimora a Roma secondo gli ultimi dati ISTAT. Una stima che può arrivare fino a quindicimila persone in povertà estrema se si considerano quelli che vivono in baracche di fortuna. Roma è, insieme a Milano, la città in cui si concentra la maggior parte dei cinquantamila senzatetto del paese. Per loro è quasi impossibile allontanarsi dalla strada. Per tutti loro il distanziamento sociale è un lusso, così come lo è l'igiene. Difficile lavarsi, senza un bagno. Figuriamoci disinfettare tutto, più volte al giorno.
La distanza di un metro e mezzo per gli ospiti della mensa di via Dandolo significa anche qualcosa in più. La vita in strada addestra a essere naturalmente diffidente, il primo sentimento che sviluppi non è affidarti, è proteggerti. Non è darti, è difenderti. Per questo i legami creati qui, con ospiti che in alcuni casi ricevono un pasto da tanti anni, sono stati anche legami fisici. Una stretta di mano, un abbraccio. Dato a chi ha bisogno di aiuto, da chi ne dà senza chiedere niente in cambio. Un aiuto che non si cura del colore della pelle, dell'età, della sporcizia sulle mani di chi non può lavarsi. Oggi quegli abbracci non ci sono, sostituiti dalle pieghe degli occhi, tracce di un sorriso nascosto, quel gesto d'affetto sbirciato dalla mascherina. L'isolamento per chi non può toccarsi, stringersi una mano in segno di affetto, riconoscenza e dignità si raddoppia. 
E' la difficoltà degli emarginati. Che hanno più bisogno di accudimento e presenza nel momento in cui le precauzioni impongono distanza, separazione. 
«Troveranno sempre un pasto qui», continua Lucia, «ma ancora più di prima troveranno parole: hanno bisogno di sapere cosa accade, come evolve la situazione intorno a loro. Il problema sono le porte aperte, devono esserci delle porte aperte in città per rispondere al bisogno».

La città, ancora una volta, sta mostrando una solidarietà compatta. Lucia racconta come parallelamente all'aumento di chi ha bisogno di un pasto sia aumentato il numero di volontari, che siano giovani che si mettono a disposizione per fare la spesa agli anziani in difficoltà o cittadini che vogliono supportare Sant'Egidio nelle cene itineranti nei diversi quartieri in cui operano nella distribuzione di cibo che quattro volte la settimana. supportando chi vive in strada. 
Un tempo, prima del Covid, si donava un pasto caldo, oggi l'emergenza ha impostosto di sostituirlo con buste di panini, qualche bevanda e un po' di frutta. C'è l'ostacolo e anche la sua soluzione, ma nessuno va lasciato solo.
Antonino ha vissuto in strada 18 anni tra la stazione Termini e quella Tuscolana. Ha conosciuto i volontari di Sant'Egidio mentre distribuivano pasti e coperte. Pian piano ha chiesto di rendersi utile, è stata la sua via per uscire dal buio. Con una mano prendere, con l'altra restituire l'aiuto.
Ha cominciato a frequentare la mensa, quelli che erano volontari sono diventati amici, fratelli.
Oggi Antonino è un ponte, soglia tra chi aspetta un pasto e chi lo dona. E lui a dividere due ospiti in lite, in coda alla mensa di Via Dandolo. L'aria è tesa, la paura nei vulnerabili può diventare aggressività e allora lui si alza, prende sotto braccio Idriss. Convince gli altri a farlo passare: «Vai a mangiare», gli dice, «e non preoccuparti, passerà. Tutto si risolve». 
Finito in strada dopo il licenziamento, perde il salario, la moglie e poi anche l'equilibrio che serviva per provare a ricominciare. «Provi a rialzarti», dice Antonino, «ma non ce la fai». E a un certo punto, semplicemente, ti abbandoni al non farcela e la tua casa diventa la strada. Una vita di notti tutte uguali, in cui cerchi una fonte di calore qualsiasi che non ti faccia tremare dal freddo, in cui cerchi una sedia, per non passare la notte seduto su un marciapiede. Per cercare le tracce di quello che nell'abbrutimento ancora ti fa sentire umano. Ha un figlio in Sicilia, non può vederlo. Oggi sul suo viso rugoso non c'è più vergogna, ma la dignità di chi ha costruito un'esistenza di decoro anche ai margini della società. 
«C'è bisogno di soluzioni per tutti, anche per gli invisibili», dice Lucia, e sorride con gli occhi a Antonino, che è un pezzo dei due mondi, una mano e l'altra, chi prende e chi dà, due mani che mai come ora, sebbene distanti, hanno bisogno di stringersi. Anche solo col pensiero.


[ Francesca Mannocchi ]