Su Santa Sofia un'altra guerra dei templi

Su Santa Sofia un'altra guerra dei templi

Tornerà moschea?

Tra poco Aghia Sophia sarà moschea? Così sembra volere il presidente turco Erdogan, da tempo critico sulla sua musealizzazione, benché sia attrazione di milioni di turisti a Istanbul. Le guerre per i templi sembravano passate. Ma non è un tempio da poco: è la basilica costruita da Giustiniano nel 537 per farne la chiesa più bella del mondo, la Divina Sapienza, lo splendore d'Oriente. Qui, sede del patriarca ecumenico, erano incoronati gli imperatori nella sinfonia tra Chiesa e impero. Bellezza dei mosaici e ricchezza dell'arredo ne facevano il cuore sacro, magico, di Costantinopoli, città cristiana per eccellenza, nuova Roma, i cui abitanti si dicevano «romioi», romani (ancora per i turchi i greco-ortodossi sono i rum).
Mehemet II, conquistatore della Polis nel 1453, visitò subito Aghia Sophia. Il venerdì successivo volle lì la preghiera islamica e ne fece una moschea, come per appropriarsi dell'anima della città. La cupola, sul modello del Pantheon, continuò a dominare il paesaggio e ispirò le moschee ottomane. Già la basilica aveva ricevuto un attacco dai crociati nel 1204, che ne fecero una chiesa cattolica (ancora gli ortodossi lo ricordano amaramente). Nella storia si ripetono i passaggi dei luoghi di culto, vere appropriazioni simboliche del vincitore.
Così fu con la moschea degli Omayyadi a Damasco, un tempo dedicata a San Giovanni Battista, sino a tante chiese minori nelle terre occupate dall'islam. Si pensi che, a Urfa in Turchia, l'antica cattedrale armena in rovina è stata resa moschea nel 1993. Tuttavia, a Istanbul e in regioni orientali della Turchia, sorprende la presenza di chiese aperte, sebbene il numero dei cristiani sia esiguo. Del resto, dopo l'espulsione degli ottomani dall'Europa, tra XIX e XX secolo, i minareti e le moschee scomparvero in Grecia e in alcuni paesi balcanici.
Per secoli, Aghia Sophia è stata una delle moschee del sultano-califfo. Il patriarcato ortodosso si è spostato altrove per finire nei modesti locali del Fanar, a capo di una piccola comunità.
Con la sconfitta ottomana nel 1918, ci fu qualche idea di riconversione cristiana di Aghia Sophia. Anche il Vaticano si fece discretamente avanti. Il comandante francese entrò a Istanbul nel 1919 sul cavallo bianco come Mehemet II, in segno di riconquista. Ma erano giochi con la storia: non rinasceva Costantinopoli, restava la Turchia. La svolta venne da Ataturk, che chiuse la moschea al culto e ne fece un museo nel 1935. Dispiacque ai devoti, ma la basilica bizantina, poi moschea del califfo, era il passato. Ataturk voleva creare una vera nazione moderna e laica: le religioni erano il passato. Nel 1925, chiamò lo storico delle religioni francese Dumézil a insegnare nell'università di Istanbul, rendendo i suoi corsi obbligatori per tutti gli studenti per creare una coscienza laica della religione.
Fino a oggi, Aghia Sophia è rimasta museo. Creò polemiche Paolo VI (che peraltro acconsentì alla costruzione della moschea di Roma) quando, nel 1967, s'inginocchiò per pregare a Aghia Sofia, lì dove era stata deposta la scomunica romana del patriarca ortodosso nel 1054. In certi luoghi sembra che la storia non passa. Oggi Erdogan si riallaccia alla storia ottomana e vuole Aghia Sofia moschea. Nell'anniversario della conquista della città, un imam ha letto una Sura nell'ex chiesa. Sembrano segnali che preparano una prossima decisione del consiglio di Stato per la riconversione in moschea. Proteste sono arrivate da Grecia e Russia.
Il patriarca Bartolomeo ha affermato che Aghia Sophia non deve «di nuovo diventare motivo di contrapposizione e scontro»: la basilica, «costituisce il luogo-simbolo dell'incontro, del dialogo... della reciproca comprensione tra cristianesimo e islam». In realtà la decisione di Erdogan rappresenta l'espressione macroscopica di quella corrente che vuole la revisione dell'uso simbolico dei luoghi e dei monumenti (qualcosa non del tutto dissimile avviene oggi con le statue in Occidente).

Aghia Sophia è un simbolo potente e dirompente. Il revisionismo riaccende le passioni. Forse rafforzerà il presidente alla breve, ma poi le passioni si comunicano nel mondo globale, creando conflitti culturali (speriamo solo questi) dagli esiti incontrollabili per tutti. Bisogna accettare i simboli e gli usi dei monumenti consegnatici dal passato, relativizzarli, se si vuole una «nuova» storia senza restare prigionieri di vecchie storie che non passano mai. Eppure il nostro mondo è tanto assetato di revanche.


[ Andrea Riccardi ]